“Ho sempre apprezzato Morrissey e la sua musica. È esperto di così tanti generi e conosce profondi tagli di artisti dei quali pensavo di sapere così tanto”: forse, invece, dovremmo partire proprio da queste dichiarazioni per analizzare obiettivamente i dodici brani presenti nell’album. Anche perché a pronunciarle è stata la voce inconfondibile di un artista che ha affiancato Moz nella cover di It’s Over, ovvero LP. I giornalisti hanno tentato di stuzzicare non solo lei ma anche gli altri artisti che hanno collaborato con il cantante con domande insidiose sulla sua attuale visione politica. Ma fortunatamente abbiamo l’onore di ascoltare le loro voci per aggiungere valore al risultato finale del disco e non per avvalorare tesi ed esprimere pareri fuori luogo su vicende estranee al contesto. Perché in fin dei conti di musica si tratta.
In “California Son”, prodotto da Joe Chiccarelli, l’eterogeneità nella scelta delle cover è tangibile e la cifra stilistica di Morrissey è indiscutibile. Nonostante ciò non stravolge i brani, in alcuni casi rinforza l’arrangiamento (un esempio è la cover di Don’t Interrupt The Sorrow di Joni Mitchell) ma ne rispetta le linee originali. Non ha certo privilegiato le hit di maggiore successo ma ha preferito riproporre quelle a cui è particolarmente legato. Per quanto riguarda invece gli autori non si è affatto risparmiato: Bob Dylan, Joni Mitchell, Jobriath, Roy Orbison, Phil Ochs, sono solo alcuni tra i nomi da citare.
Il disco parte con una luminosa Morning Starship dall’armonia incisiva e decisa, al passo coi tempi. Impreziosita da Ed Droste ai cori, risuona dell’essenza di Morrissey. Alla pronuncia di quelle due parole, “Morning Starship”, non puoi che pensare “eccolo, è lui.”: è a quel punto che ammetti che quel pezzo è riuscito a farlo suo in tutto e per tutto. Billie Joe Armstong si aggrega per una Wedding Bell Blues che sta nel mezzo tra quella cantata da Laura Nyro e quella interpretata successivamente dai The 5th Dimension. Ed è la presenza di canzoni di protesta come Only A Pawn In Their Game (Bob Dylan) e Days Of Decision (Phil Ochs) che lascia invece un retrogusto di scetticismo in chi si interessa non solo del Moz artista.
Dopo il precedente album (“Low In High School” del 2017), che non aveva convinto totalmente i fan, “California Son” arriva con uno spirito nuovo marcato sempre dal riflesso colorato del Morrissey di un tempo. Le considerazioni saranno molteplici e contrastanti. Bragg qualche tempo fa con la frase “Here was a light, but it has now gone out” delineava un declino della carriera dell’artista: di sicuro ci sarà chi condividerà quest’affermazione e chi guarderà con occhio critico l’album senza soffermarsi sull’aspetto compositivo e quindi prettamente musicale. Una cosa è certa, c’è chi continua a emozionarsi all’ascolto della voce baritonale del camaleontico Moz col sentore nostalgico di chi ripensa alla preziosa eredità lasciataci, ombra fedele dei nuovi lavori.
(2019, BMG)
01 Morning Starship
02 Don’t Interrupt The Sorrow
03 Only A Pawn In Their Game
04 Suffer The Little Children
05 Days Of Decisions
06 It’s Over
07 Wedding Bell Blues
08 Loneliness Remembers What Happiness Forgets
09 Lady Willpower
10 When You Close Your Eyes
11 Lenny’s Tune
12 Some Say I Got Devil
IN BREVE: 3,5/5