Decine di rughe solcano il volto di Neil Young: due sono quelle di Zeke e Ben, i suoi figli affetti da paralisi cerebrale, una è quella di Pegi, compagna, amica, madre, confidente rimasta una delle colonne portanti della sua vita nonostante la separazione dopo trentasei anni di matrimonio, venuta a mancare a Gennaio di quest’anno. Molte sono quelle delle malattie e dei suoi persistenti problemi di salute, in altre ancora il dolore per la perdita si mischia al senso di colpa per la morte di Danny Whitten, Bruce Berry.
Scontroso e capriccioso, schivo e umorale, Neil Young ha attraversato decine di epoche alcune delle quali influenzandole notevolmente, nonostante alcuni rumorosi passi falsi, uno tra gli altri “Re-ac-tor” del 1981. Quello che all’epoca non era del tutto chiaro era proprio il fatto che quel disco nascondesse T Bone e la capacità di Young di mettere in forma estetica il dolore, trasformando l’incomunicabilità in arte e raccontandola a tutti. Che si tratti dei suoi progetti solisti, della sua militanza all’interno dei CSN o di radunare in una sole notte i Crazy Horse, per Neil Young scandagliare il folk, il rock, il country, l’alternative è da sempre stato un processo terapeutico e, anche se può sembrare una definizione un po’ semplicistica, i Crazy Horse sono per Young quello che la E Street rappresenta per Bruce Springsteen: rapporto umano, caciara, libertà espressiva e improvvisativa (forse non è un caso che entrambi condividano la presenza di Nils Logfren).
Esplorare Colorado, disco numero trentanove per l’artista canadese e primo con la sua band da “Psychedelic Pill” del 2012, può rivelarsi un processo di una difficoltà estrema e, al contempo, un’esperienza totalizzante dominata dalla sensazione di permanenza in una dimensione intima e privata. Prodotto dallo stesso Young e da John Hanlon, “Colorado” è frutto di undici giorni di incisioni, rigorosamente in presa diretta, senza l’utilizzo delle cuffie e rappresenta l’ennesima dimostrazione di come Young non abbia minimamente perso passione e sdegno. Si potrebbe dire che è un album atipico, non catalogabile né all’interno dello stile da solista del cantautore canadese né definibile 100% Neil Young & Crazy Horse.
In questo senso forse una parte fondamentale è giocata dal ritorno di Logfren che alla chitarra alterna parti di piano, organo e vibrafono (Think Of Me, Green Is Blue, Eternity, I Do) aggiungendo linee morbide e melodiche a discapito di un suono più grasso che probabilmente la presenza di Frank “Poncho” Sampredo avrebbe assicurato in abbondanza. Allo stesso tempo, ci sono alcuni episodi elettrici in cui voci sfilacciate, chitarre invecchiate e tempi anti-metronomici, vero marchio distintivo dei Crazy Horse, prendono il comando senza mai lasciare posto alle armonie, così succede per Help Me Lose My Mind, Shut It Down e, perché no, in She Showed Me Love, rapsodia di chitarra della durata di tredici minuti, cui è lasciato anche il compito di definire il tema principale di “Colorado”: la preoccupazione per i cambiamenti climatici, questione che ricorre anche in Green Is Blue e Shut It Down.
Oltre alla preoccupazione per le sorti del pianeta, Young si lascia trasportare dal sentimento nei confronti della terza moglie Daryl Hanna e per lei sono Eternity e I Do, le cui armonie sono talmente ben riuscite e fuse con la fragilità vocale di Young da poter tralasciare il simbolismo lirico. E a questo proposito, quando la lettura impone un “I Hope we’re living in a house of love for eternity” o un “Thanks for making all this happen again”, si percepisce appieno l’allontanamento dal tempo di “Unkonwn Legend” (“Harvest Moon”, 1992), in cui parlare d’amore equivaleva a dire “She used to work in a diner / Never saw a woman look finer / I used to order just to watch her float across the floor”.
Il making of del disco è dettagliatamente documentato dal lungometraggio “Mountain Top”, che riprende quasi ogni momento delle sessioni di registrazione, un tentativo per restituire la percezione di cosa significhi toccare con mano il suono, farlo scivolare su superfici calde, ruvide, analogiche. L’artwork è diviso in due: 50% Drew Dogget, fotografo pluripremiato, e 50% Amber Jean Young, splendida giovane donna terzogenita di Neil. La solidità lirica o la forte presenza di melodia possono essere i punti più deboli del disco ma un dato di fatto è innegabile: Neil e i suoi cavalli sono vivi, vigorosi, creativi e sopratutto mai uguali a se stessi.
(2019, Reprise)
01 Think Of Me
02 She Showed Me Love
03 Olden Days
04 Help Me Lose My Mind
05 Green Is Blue
06 Shit It Down
07 Milky Way
08 Eternity
09 Rainbow Of Colors
10 I Do
IN BREVE: 3/5