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Nick Cave & The Bad Seeds – Wild God

Nel suo nuovo disco Nick Cave ci entra in corsa. Come fosse un balzo su un treno a tutta velocità. I binari sono quelli orchestrali della magnifica Song Of The Lake. Il senso è: non c’è tempo da perdere ed è meglio non farli passare quei treni, certe cose vanno tirate fuori subito. Cave lo sa bene nei suoi sessantasei anni di arte e disperazione. Wild God, album numero diciotto a collegio con i Bad Seeds, si presenta con una copertina bianca, essenziale, troppo per qualcuno. Certo, ma chiedere a Cave di complicare ancora più i sentimenti è una tortura che non merita. Il lutto, i lutti (i due figli Arthur e Jethro), il mondo che precipita come un lampadario a infrangersi s’un tavolo di cristallo, sono stati la tragica sostanza degli ultimi dieci anni di quest’uomo totale.

Oggi quindi “Wild God” è la maniera di Cave di trovare un patto con il Dio selvaggio, ma stavolta, rispetto al recente passato di “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019) con i Seeds e di “Carnage” (2021) con il solo Warren Ellis, annacquando le tinte scure e tentando la strada del candore, almeno formale. Perché la gamma di sensazioni esplorate è come sempre vasta e spiazzante ma è la luce a cambiare. Frogs ad esempio, una canzone areosa, che ci porta sui territori di Caino e Abele e dell’impatto che può avere la storia di due fratelli nella biografia di Cave. Oppure Long Dark Night, una ballata che nasce scura ma che poi s’accende come il colpo di coda di una candela che resiste a una folata.

Tornando al concept, nella title track, in cui si citano i marciapiedi neri di “Jubilee Street”, Nick trova infine empatia con questo Dio che tanto lo ha tradito: “E io sono un Dio vecchio e malato che muore, piange e canta”, stringe tra i denti Cave. Il pezzo cambia, man mano, e finisce per farsi preghiera delirante. L’aspetto sacrale segna l’album di luci triangolari. I gospel di Final Rescue Attempt e di As The Waters Cover The Sea spingono in scena un Cave stropicciato, col completo di qualche giorno, ma con un volto finalmente disteso. Lo si percepisce anche nell’epica Joy: cori, piatti che vibrano, e questa parola ripetuta quasi a perderne significato. Anche nella iniziale Song Of The Lake c’è un refrain che viene reiterato a salmodia. È “never mind” (“non importa”). Non importa, sì proprio così. Farsi scendere il nero di dosso fino a che non coli dalle suole delle scarpe.

2024 | PIAS

IN BREVE: 4/5

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