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Orlando Weeks – Hop Up

Riempire gli spazi: è stato questo il diktat di Orlando Weeks dopo lo scioglimento dei Maccabees. Nulla di travagliato, almeno apparentemente. Dopo quattordici anni e quattro dischi, anche di discreto valore considerato il marasma di pubblicazioni indie dei primi anni 2000, nel 2016 Weeks e i suoi sodali hanno preferito riporre in soffitta il progetto. A quel punto si è aperto il momento della transizione verso nuovi luoghi compositivi. Ed è qui che si sono materializzate le inclinazioni di Weeks verso sonorità più rarefatte in cui è evidente il lascito artistico di Hollis o la lezione del Sylvian solista. Molto evidenti nell’esordio di due anni fa, “A Quickening”, che tanto deve a “Spirit Of Eden” dei Talk Talk o “Secrets Of The Beehive”dell’ex leader dei Japan.

Il primo disco di Weeks senza i Maccabees è stato il primo tassello del processo di ricostruzione di cui si diceva all’inizio: riempire una stanza vuota in maniera essenziale, senza strafare e farsi abbagliare dai facili entusiasmi degli eventi. La paternità, ad esempio, che ha accompagnato Orlando Weeks nel corso della realizzazione del primo lavoro. Hop Up, invece, pur innestandosi sulla scia del precedente si arricchisce di particolari sonori: la stanza sembra arredarsi di gingilli più o meno vistosi che le conferiscono una verve avveniristica. Weeks, con l’aiuto del produttore Bullion – al secolo Nathan Jenkins – in questo secondo lavoro in studio ricorre meno al minimalismo dei suoni sospesi, in favore di atmosfere più partecipate e ilari. Sono diversi i momenti in cui si è più vicini all’alt pop e a sonorità care agli anni ‘80, mentre sono relegati ad una minoranza i pezzi che strizzano l’occhio all’ambient e allo slowpop.

Deep Down Way Out è un incipit infarcito di ritmiche opulente, ronzii di chitarra e synth gommosi che accompagnano l’inizio della nuova vita paterna dell’ex frontman dei Maccabees. Nelle liriche riscontriamo la dicotomia tra la gioia contagiosa per il lieto evento e l’apparente inadeguatezza a ricoprire questo ruolo (”Oh, you’re the best thing/ Oh, I’m the worst one for it”). È un argomento costante, questo. Viene snocciolato a più riprese al punto da essere il leitmotivdel disco. Look Who’s Talking Now richiama in più di un passaggio il pop concettuale di David Byrne, mentre Bigger, in cui si segnalano gli intermezzi vocali di Katy J Pearson, è pienamente immerso in un’estetica sonora eighties.

No End To Love si annovera tra i pezzi di matrice hollisiana, unitamente a Big Skies, Silly Faces che con i suoi beat sordi e i ricami di pianoforte si ricongiunge emotivamente al disco d’esordio del musicista britannico. La fine è affidata agli interrogativi da neo papà di Way To GO (”Did you hurt yourself? / Can I kiss it better? / Can I wave it on? / Can I help in any way?”) che fungono da chiara sintesi del disco.

Nonostante l’ottimo lavoro in sede di produzione e la percepibile urgenza compositiva di Weeks, “Hop Up” si assesta un gradino sotto “A Quickening”, pur avendo le sue peculiarità e i punti di forza. Riempire non è sempre sinonimo di aggiungere, soprattutto quando l’equilibrio raggiunto si fonda sulla sottrazione.

(2022, Play It Again Sam)

01 Deep Down Way Out
02 Look Who’s Talking Now
03 Bigger
04 Yup Yup Yup Yup
05 High Kicking
06 No End To Love
07 Hey You Hop Up
08 Make You Happy
09 Big Skies, Silly Faces
10 Silver
11 Way To GO

IN BREVE: 3,5/5

Nasco a S. Giorgio a Cremano (sì, come Troisi) nel 1989. Cresco e vivo da sempre a Napoli, nel suo centro storico denso di Storia e di storie. Prestato alla legge per professione, dedicato al calcio e alla musica per passione e ossessione.

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