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Richmond Fontaine – You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To

youcantgobackiftheresnothingtogobacktoI Richmond Fontaine hanno scritto pagine indimenticabili dell’alt-country. Sono stati alfieri, nel secolo XXI, di una tradizione così distante dalla nostra da passare spesso sottobanco. Eppure Willy Vlautin, deus ex machina, corpo e anima del progetto, ha raccontato bene come pochi quella sconfinata, vuotissima, ricchissima – di storie, sì – provincia americana coi suoi loser, le sue giornate tutte uguali, le maratone alcooliche e un amore povero, ma intenso.

A ben cinque anni dallo splendido “High Country”, giunge sugli scaffali l’oracolare You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To: ultimo capitolo di una discografia entrata di diritto nella Storia (con la S maiuscola) dell’americana, assieme ai finora quattro romanzi firmati Will. Ultimo, purtroppo, non solo in termini d’uscita: ultimo in valore assoluto, ultimo fiato a nome Richmond Fontaine. Motivo in più per goderselo dalla prima nota.

Perché se avete una minima voglia di tuffarvi, senza retorica alcuna, nel sogno a stelle e strisce, dovreste dare un ascolto alla splendida I Got Off The Bus, col suo refrain da spezzare il fiato: ”Mi sveglio e vedo un poliziotto in piedi davanti a me / Gli dico che sono cresciuto per strada e che questo dovrà pur valere qualcosa / Lui risponde che non gliene importa un accidenti, basta che io mi tolga dalle scale”. Il songwriting, forse superfluo specificarlo, è certamente il punto forte dell’opera: più bella da leggere che da ascoltare. La struttura dei pezzi è talmente classica da sembrare, a volte, già sentita e risentita; ma è proprio questo il giusto. Esiste, nell’intrinseca natura di quest’album, la volontà precisa di suonare in modo classico, di – quasi – auto omaggiarsi, tenendo alta la qualità degli arrangiamenti.

Lo snodo centrale composto dal trittico I Can’t Black It Out If I wake Up And Remember Don’t Skip Out On Me Two Friends Lost At Sea, di fattura eccelsa, è anche un piccolo grande saggio di cosa ha offerto e offre, in termini di ritmo e scrittura, un’attinenza così scrupolosa alle strutture pregresse. Non esiste, all’interno del lavoro, né un momento di up propriamente riconoscibile – né tantomeno un momento di down. Tutto scorre pacificamente, morbidamente, come i tramonti sulla radura e i pomeriggi in attesa che qualcosa cambi senza muovere un dito, ingiuriando il governo e quei porci democratici.

Il cerchio non può che chiudersi con la dolcissima ballad Easy Run, col suo desiderio di splendente normalità, di una vita serena: ”Pensi che possa trovarci una corsa semplice? / E Flannigan e Cassie saranno lì e pure il vecchio Leon con sua moglie / Annie siederà in un angolo accanto al giradischi / Lo farà suonare tutta la notte / Pensi che un giorno possa accadere anche a me?”. Vlautin aggiunge un’altra perla a una legacy indimenticabile e tristemente al capolinea. Merita un voto, complessivo, alto. Nella certezza che la penna gli resterà costantemente in mano.

(2016, Decor)

01 Leaving Bev’s Miner Club At Dawn
02 Wake Up Ray
03 I Got Off The Bus
04 Whitey And Me
05 Let’s Hit One More Place
06 I Can’t Black It Out If I Wake Up And Remember
07 Don’t Skip Out On Me
08 Two Friends Lost At Sea
09 Three Brothers Roll Into Town
10 Tapped Out In Tulsa
11 The Blind Horse
12 A Night In The City
13 Easy Run

IN BREVE: 4/5

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