Da questo punto di vista si può dire che Suffuse, il suo ultimo disco, costituisca un vero e proprio lavoro di ricerca per quello che riguarda la bellezza e la intensità delle voci. Questo non solo nel lavoro fatto in fase di produzione e di registrazione, nella composizione delle canzoni e nella loro struttura, ma principalmente proprio nella scelta delle collaborazioni che qui oltre che “ricercate” (nel senso della grande qualità dimostrata) sono anche di eccellenza, trovandoci davanti a nomi che nel giro hanno anche una certa popolarità e il dovuto riconoscimento della critica.
Intanto va detto che proprio il nome di Roy Montgomery non è forse conosciuto quanto meriterebbe dagli appassionati, forse neppure da chi abbia avuto modo di ascoltare i suoi lavori pubblicati nel corso degli anni con altri progetti, come nel caso dei The Pin Group che hanno fatto la storia della musica alternative neozelandese e della mitica epopea della Flying Nun Records, oppure esperienze fondamentali come i Dadamah e soprattutto la partnership con i Bardo Pond, culminata nel progetto (oggetto di culto del discusso ed eccentrico critico musicale Piero Scaruffi) Hash Jar Tempo, con il quale ha pubblicato due incredibili LP alla fine degli anni Novanta (“Well Oiled” del 1997 e “Under Glass” del 1999).
Musicista sempre all’avanguardia e capace di rinnovarsi nel corso degli anni, Roy condivide effettivamente proprio con i Bardo Pond una certa attitudine nei confronti di sonorità di imprinting psichedelico, ma con una forte spinta verso dimensioni eteree e celestiali, che nel sound del gruppo di Philadephia divampano in un fragore noise incontrollato mentre qui si sublimano invece con una certa classe ed eleganza, due caratteristiche che effettivamente non sembrano mancare neanche in questo disco.
Formato da sei tracce, “Suffuse” si sviluppa attorcigliandosi in maniera inscindibile alle voci delle interpreti nel continuum concettuale di una specie di ascensione spirituale, un lungo viaggio ideale nel subconscio. La prima traccia (Apparition) è una sessione noise riverberata di sei minuti. Interpretato da Haley Fohr (Circuit des Yeux), il pezzo ha un carattere solenne, è quasi un recital con una componentistica astratta e quel transumanesimo dadaista del David Bowie berlinese di “Low” e “Heroes”.
Seguono il rock blues minimalistadi Rainbirde il fatalismo di Jessica Larrabee (She Keeps Bees) amplificato dall’utilizzo di loop e suoni di sottofondo, che intensificano la marcia costante e avvolgente del riff base delle chitarre; Katie von Schleicher (Wilder Maker) regala un’interpretazione semplicemente spettacolare nello shoegaze amniotico di Outside Lover Ballad No 1, un sound che con la traccia successiva Mirage diviene praticamente celestiale e passa a uno stato liquido e privo di forme predefinite e tangibili, con le voci di Clementine e Valentine Nixon (Purple Pilgrims) che ricordano il canto tragico, disperato e allo stesso ammaliante delle sirene in un tempo magico e avvolto dalle nebbie, un contesto remoto e senza tempo come quello dei poemi epici di Omero.
Con Sigma Octantissi continua a restare in uno stato di sospensione, con la space music, l’ispirazione new age a bassa intensità e i cori ancestrali della voce di Julianna Barwick, mentre con Landfallsi approda a forme più sostenute di composizione, che trovano epigoni nei momenti più subliminali di esperienze neo-psichedeliche fondamentali come quelle dei già menzionati Spacemen 3 oppure dei Brian Jonestown Massacre (“Evergreen”) e del minimalismo della wave giapponese, una minima concettuale, catartica come eco che arrivano a oggi dopo aver riverberato nel tempo, dal fondo degli oceani fino a raggiungere le vette del Monte Fuji, e che qui si traducono in un disco che senza colpi di scena e senza difetti definiamo semplicemente imperdibile.
(2018, Grapefruit)
01 Apparition
02 Rainbird
03 Outsider Love Ballad No 1
04 Mirage
05 Sigma Octantis
06 Landfall
IN BREVE: 4/5