Sicuro, il produttore di grido renderà il suono sufficientemente “heavy” per poterlo spacciare per hard rock, duro e puro, yeah, fighi, noi non accettiamo compromessi perché il rock è la nostra vita eccetera, ma rimarrà sempre assolutamente pulito e condito da una voce candida e riff o melodia vendibile a tal punto che ti ritroverai il singolo in qualche pubblicità passata in maniera martellante su ogni rete, privata o pubblica, a pagamento o gratis, satellitare o digitale.
E al secondo album, accadrà, quasi inevitabilmente, che il suono rimarrà identico, i pezzi caleranno qualitativamente scemando verso l’oblio della noia, e le voci che inneggiano ai nuovi salvatori del rock saranno probabilmente ridotte a magazine specialistici che sbandierano l’amore per il vero rock promuovendo band mediocri che imitano pedissequamente artisti di tempi ormai passati e reunion di ex fenomeni ormai bolliti.
How Did We Get So Dark?, si domandano Mike Kerr e Ben Thatcher; e se non ci risulta difficile empatizzare con due ragazzi lanciati con un razzo a forma di tour bus in un tour di due anni e mezzo nel quale hanno ripetuto alla nausea le stesse 10 canzoni dell’album di debutto, non possiamo tuttavia che ruotare gli occhi all’indietro in segno di fastidio al concetto di “dark” (qui inteso come “sinistro” o “tenebroso”) usato per autodefinirsi: regazzí, non è che siete i primi a scoprire la funesta macchina del successo o a dover fare ritmi da pazzi. Nella golden age del rock pressoché qualunque band inglese rimasta nella storia ha sostenuto ritmi ben peggiori per compensi ben minori, quindi sta bene la fatica, sta bene l’incredibile esperienza vissuta, però porco cazzo contestualizziamole queste esperienze e cerchiamo di rapportarle al grande schema delle cose.
E questo fantomatico grande schema sarebbe quello proposto in forma di periodo ipotetico del primo tipo qualche paragrafo più su, ovvero una band che ha difficoltà a suonare fresca e innovativa come all’esordio (esordio che, parliamoci chiaro, non ha salvato il rock né ha fatto altro se non aggiungere un cinque/sei pezzi interessanti e orecchiabili alla lunghissima storia che dal 1955 seguiamo appassionatamente) e che, pur mutuando il suono da band straordinarie, prima tra tutte quella per la quale spesso hanno aperto (i Queens Of The Stone Age), non riesce ad andare oltre un già visto e sentito che rende superflui gli ascolti multipli alle orecchie già navigate.
Non c’è niente di musicalmente offensivo e il singolo Lights Out così come la title track o Hook, Line & Sinker, sono altre tre valide aggiunte alla storia di cui sopra, ma per carità, per amor del cielo, non parliamo di salvatori o di nuovi giovani messia, tanto più che questa si può intendere musica rock tenendosi larghi e per amore del suono di una chitarra distorta, ma per struttura e melodia non ci sarebbe vergogna a trattarla come pop radiofonico. E credeteci, non sarà un caso se il singolo di cui sopra lo sentirete in heavy rotation o affiancato a un cellulare di ultima generazione o ancora a un macchinone che consuma come un Boeing 747, come già accadde con “Figure It Out”, singolone tratto dall’esordio.
E non che ci sia alcunché di sbagliato: il pop rock ha tutt’oggi larghe schiere di fruitori che sono fieri dei Royal Blood. Però, se vogliamo parlare di salvatori del rock, forse sarebbe meglio rivolgersi altrove o, meglio ancora, lasciar perdere queste stronzate usate per vendere le riviste (o, di ‘sti tempi, per fare più accessi al sito) e ascoltare quanta più musica possibile.
(2017, Warner)
01 How Did We Get So Dark?
02 Lights Out
03 I Only Lie When I Love You
04 She’s Creeping
05 Looks Like You Know
06 Where Are You Now?
07 Don’t Tell
08 Hook, Line & Sinker
09 Hole In Your Heart
10 Sleep
IN BREVE: 2,5/5