Senza addentrarci troppo in spicciole analisi sociopolitiche: una delle tante differenze che intercorrono tra un paese come gli Stati Uniti e l’Italia è che, nel fronteggiare problemi radicati nella società come il razzismo e la violenza delle forze dell’ordine, negli U.S.A. si reagisce anche e soprattutto con una risposta culturale, oltre che fisica nelle manifestazioni, sotto la guida di artisti indipendenti e mainstream che supportano le cause, producono musica nuova, divulgano informazioni senza paura di mancare di “coolness” e risultare fastidiosamente impegnati e noiosi.
Dalle nostre parti invece, negli ultimi vent’anni si sono susseguite un cumulo di bestialità per cui o per le piccole o grandi cause sociali non si protesta affatto o, quando lo si fa, è sempre attraverso qualcosa di breve, poco sentito e privo del supporto concreto e della guida illuminata di intellettuali e artisti (l’impatto delle “Sardine” è durato meno di due mesi, e ora non voglio neanche considerare l’esistenza dei Gilet Arancioni per il mio benessere psicologico). Sarà stato il trauma di una sequela infinita di Concertoni del Primo Maggio con la Bandabardò e i Modena City Ramblers che diventano negli anni macchietta di loro stessi; sarà che sulla Rai si fanno ancora speciali su De André e Guccini senza parlare di artisti emergenti e ricambi generazionali; sarà che dalle nostre parti un genere importante come l’hip hop è nato in una bolla iperpoliticizzata fatta di centri sociali e radicalismo che ora è definitivamente scoppiata portando alla speculare trap, sarà quel che sarà, ma siamo finiti in una situazione tale per cui fare musica di protesta non è “figo”, anzi nel migliore dei casi si diventa automaticamente un “ipocrita radical chic sinistroide con l’attico a New York”.
Alla prima labile manifestazione di interesse per un’istanza sociale, arrivano migliaia di commenti sui social network che recitano “L’artista X torni a occuparsi di musica e non di politica”. Ma il problema non è solo come vengano bollati gli artisti dalla massa di haters, ma soprattutto la loro stessa musica, che troppo spesso è brutta, noiosa e anacronistica, come se fosse impossibile coniugare appetibilità e bellezza sonora con testi e un’attitudine più o meno “impegnati”. Anche chi parte con buoni intenzioni e una narrazione alternativa, come il Ghali dei primi testi legati all’immigrazione nordafricana in Italia, viene inghiottito da un mostro mediatico fatto di Fabio Fazio, pubblicità sorridenti e ogni altra cosa che può rendere un artista meno “pericoloso” possibile.
Sono quasi inevitabili considerazioni come queste per un ascoltatore europeo quando, dall’altra parte dell’oceano, si trova davanti un’uscita discografica così azzeccata, necessaria e sonoricamente massiccia come quella di RTJ4, quarto disco a nome Run The Jewels. Pubblicato a sorpresa mercoledì 3 Giugno, qualche giorno in anticipo rispetto al canonico venerdì delle uscite discografiche, il nuovo album dei rapper/producer Killer Mike ed El-P arriva nel pieno delle proteste che stanno attraversando ogni singolo stato americano e parecchi paesi stranieri, mosse dal movimento “Black Lives Matter” in seguito all’assassinio dell’afroamericano George Floyd per mano di quattro agenti della polizia di Minneapolis, Minnesota.
Non c’era un minuto in più da attendere, come hanno scritto i RTJ sui loro canali social: “Fuck it, why wait? Il mondo è infestato da stronzate, quindi ecco qualcosa di onesto e crudo da ascoltare mentre ve ne occupate. Speriamo vi porti un po’ di gioia…”. Oltre alla possibilità, sempre concessa ai propri fan fin dal primo disco, di scaricare gratuitamente l’album dal loro sito (“…non vogliamo tu debba scegliere tra il mettere un pasto sulla tua tavola o comprarti il disco”), stavolta c’è stata anche la possibilità di fare una donazione che verrà poi devoluta a organizzazioni che si occupano di giustizia razziale come il National Lawyers Guild Mass Defense Fund, comitato formato da avvocati e assistenti legali. Come si diceva all’inizio, questo non è stato un gesto isolato di solidarietà e partecipazione attiva al movimento: moltissime etichette discografiche americane, rapper, artisti di musica “black” e non, anche attraverso iniziative come quella promossa da Bandcamp nel giorno di venerdì 5 Giugno, stanno donando i ricavati delle vendite di dischi e singoli digitali a piattaforme impegnate nella richiesta di giustizia per le vittime di violenze della polizia o in sostegno di chi è stato incriminato o arrestato durante le proteste.
Basterebbe questa dimostrazione d’impegno concreto per celebrare a dovere il nuovo lavoro dei Run The Jewels (e la scena alternativa statunitense in toto), ma qui musica e testi non sono un contorno secondario: il disco, come gli altri tre capitoli, suona da paura ed è un ulteriore passo in avanti nella rielaborazione dell’hip hop hardcore degli anni ’90 con sonorità moderne, in un equilibrio unico tra trap e old school. Basi composte dai synth acidi e aggressivi (Holy Camalafuck, Out Of Sight) col tempo diventati il marchio di fabbrica delle produzioni di El-P, un grande groove, il solito sesto senso per le melodie accattivanti (Ooh La La) e ospiti provenienti da mondi lontanissimi che si incontrano (Pharrell Williams e Zack De La Rocha insieme in JU$T) sono le fondamenta su cui si basa il sound di un lavoro all’altezza dei precedenti dischi che non tradisce le aspettative.
A tutto ciò bisogna aggiungere rime critiche ed evocative come quelle di Walking In The Snow: “And you so numb you watch the cops choke out a man like me / Until my voice goes from a shriek to whisper, ‘I can’t breathe’”, in cui vengono citate le ultime parole di Eric Garner prima di essere assassinato dalla polizia, le stesse parole che ripeterà un anno dopo George Floyd durante gli otto minuti del suo soffocamento. Fredde condanne tanto alla polizia quanto a coloro che si limitano a protestare ipocritamente con un tweet e nulla più (Goonies vs E.T.): nessuno è escluso dal mirino dei due rapper, tutti sono parte del problema.
Gli statunitensi possono contare su altra grande musica di protesta, in un’ondata di dischi che non è mai stata così intensa da quanto sono usciti “Awaken, My Love!” di Childish Gambino (e poco dopo “This Is America”) e “To Pimp A Butterfly” di Kendrick Lamar (ovvero più o meno da quando c’è Trump al governo, tutto torna). Dopo decenni passati a copiare dagli U.S.A. qualsiasi stronzata da loro prodotta, quando ci sveglieremo anche da queste parti nel creare un connubio tra impegno sociale e musicale? È la mancanza di un movimento serio che non permette la creazione di una colonna sonora adeguata, o viceversa?
(2020, Jewel Runners / RBC / BMG)
01 Yankee And The Brave (Ep. 4)
02 Ooh La La (feat. Greg Nice & Dj Premier)
03 Out Of Sight (feat. 2 Chain)
04 Holy Calamafuck
05 Goonies vs. E.T.
06 Walking In The Snow
07 JU$T (feat. Pharrell Williams & Zack De La Rocha)
08 Never Look Back
09 The Ground Below
10 Pulling The Pin (feat. Mavis Staples & Josh Homme)
11 A Few Words For The Firing Squad (Radiation)
IN BREVE: 5/5