Ma lui non demorde – e per questo lo ammiriamo sinceramente – e torna in pista con un nuovo album in compagnia di una nuova band, i The Wildabouts. Blaster, questo il titolo, è il ritratto di un uomo che non sa più dove sbattere la testa pur di gridare al mondo di essere ancora quella rockstar che cavalcò con discreto successo l’onda grunge. Ci riesce? Certo che no.
Musicalmente la band fa il suo dovere, suona un rock old school che strizza l’occhio agli anni ’60 (la blueseggiata White Lightning supera la media qualitativa della tracklsit) e che solo in sporadici episodi (vedi Amethyst) torna sulle orme degli Stone Temple Pilots. Così come Weiland – nonostante si senta lontano un miglio come la post produzione sulla voce sia stata mastodontica – non sfigura più di tanto al cospetto di un passato che lo ha visto indomabile animale da palcoscenico.
Ma i brani latitano, le melodie sono banali e i testi sono roba da college band alle prime armi, con una sfacciata presunzione catchy che insinua nell’ascoltatore desideri diametralmente opposti (leggasi: non ascoltare mai più questi brani neanche come sottofondo di una partita a bowling).
Solo nel finale, giunti alla dodicesima fatica di noi novelli Ercole che ci siamo prestati all’ascolto, arriva una ballad à la J Mascis solista che rende minimamente giustizia a Weiland. Ma Circles è troppo poco, infinitamente poco, per sperare che anche questi nuovi compagni di viaggio non decidano di unirsi ai vecchi, lasciandolo nuovamente solo. Che sia la volta buona che getti la spugna? Non ci scommetteremmo.
(2015, earMUSIC / Softdrive)
01 Modzilla
02 Way She Moves
03 Hotel Rio
04 Amethyst
05 White Lightning
06 Blue Eyes
07 Bleed Out
08 Youth Quake
09 Beach Pop
10 Parachute
11 20th Century Boy
12 Circles
IN BREVE: 1,5/5