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Shearwater – The Golden Archipelago

Vengono dal Texas ma la loro musica richiama la desolazione di grandi terre sovrastate da una perenne coltre di nubi. Impregnata di folk cantautorale, l’anima degli Shearwater ondeggia tra il candore della speranza e i grigiori della solitudine e ne abita gli interstizi più nascosti e fragili. Mantenersi in bilico tra questi due poli emotivi evitando che possa l’uno sopraffare l’altro non è cosa semplice, ma agli Shearwater ciò riesce con una naturalezza disarmante. The Golden Archipelago, terzo tassello di una trilogia concettuale formata da “Palo Santo” (2006) e dell’ottimo “Rook” di due anni fa, segna il definitivo punto di crescita della banda capitanata dall’ex Okkervil River Jonathan Meiburg con l’eleganza estetica di un songwriting pervaso da una delicata tensione. Il concept ha una forte impronta ecologista ed è frutto dei viaggi dello stesso Meiburg nelle Galapagos e nell’Australia del Nord, luoghi popolati da comunità umane in stretto contatto con la natura, e lontane miglia e miglia dal caos e la frenesia della vita metropolitana moderna, sia fisicamente che spiritualmente. Ad avvalorare ancor di più la già ottima qualità lirica ci pensa una scrittura mai banale che ha fatto tesoro del folk statunitense (Woven Hand e 16 Horsepower stanno dietro l’angolo) e delle ultime mutazioni del post-rock, nonché di un certo modus operandi tipico del rock che strizza l’occhio al prog. Nessuna complessità a livello strutturale a dispetto di arrangiamenti costruiti con un evidente fine comunicativo: tutto l’album ci prende per mano e ci conduce a sorvolare larghi spazi incontaminati fino a scendere in picchiata verso cavità terrestri dove l’acqua è un segreto manto di cristallo. Le foglie color ruggine cadono in Hidden Lakes al ritmo di un languido valzer crepuscolare che solo rade chiazze di luce riescono a mostrare all’occhio. Dominato dalla forma ballata, a “The Golden Archipelago” non mancano però aumenti di ritmo e pulsazioni, come l’incalzante Corridors, che ha con sé qualcosa di fortemente selvaggio. Landscape At Speed ci ha ricordato gli sfrigolii esotici dei Pram (così come An Insular Life), e God Made Me la recente scarnificazione acustica del bravissimo Martin Grech. La soffice penombra jazzata di Missing Islands sembra che ci si stia per sgretolare tra le dita. Di alta poetica melodica, complice la solennità di un approccio vocale corposo e a tratti anthemico, sono Black Eyes, che s’imprime nella memoria rapidamente ed è ciò che i Dredg più recenti non sono stati in grado di comporre, e Castaways, sinestetico luccichio sonoro che richiama l’accecante riflesso solare della copertina (non proprio un capolavoro d’estetica, dobbiamo ammetterlo). Colpisce l’amalgama di una tavolozza cromatica che lascia spazio espressivo ad ogni strumento impiegato, gli Shearwater sono ricercati ed elitari e non perdono di vista il messaggio che intendono comunicare. Non c’è alcuna battuta d’arresto, non un calo emotivo o qualitativo per i meno che quaranta minuti dell’intero viaggio. E in tali percorsi quello temporale è solo un dettaglio secondario.

(2010, Matador)

01 Meridian
02 Black Eyes
03 Landscape At Speed
04 Hidden Lakes
05 Corridors
06 God Made Me
07 Runners Of The Sun
08 Castaways
09 An Insular Life
10 Uniforms
11 Missing Islands

A cura di Marco Giarratana

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