Coadiuvato da una quantità di produttori che neanche nei dischi delle boy band, Tyler snocciola una gragnuola di banalità che sta in una terra di mezzo tra il pop overprodotto, la power ballad e il aperte virgolette country chiuse virgolette di Shania Twain, Keith Urban e Garth Brooks, ma scritto peggio.
Né aiuta il fatto che la voce di Tyler sia ridotta maluccio, supponiamo per una mistura dell’epatite C che ormai lo affligge da undici anni, l’operazione alla gola e la sacrosantissima età. E, a tal proposito, ci chiediamo cui prodest una versione molto poco originale di Piece Of My Heart (cavallo di battaglia di Janis Joplin) nella quale è possibile sentire, persino in studio, lo sforzo estremo per raggiungere cime che un tempo erano poco più che collinette per Steven e che adesso sembrano l’Everest e il K2 uno sopra l’altro.
Tyler canta per buona parte del disco con il freno a mano tirato (probabilmente anche per evitare di fare suonare tutto come un disco degli Aerosmith) abbattendo di fatto qualunque forma di interesse dell’ascoltatore medio per il prodotto, dato che da un punto di vista di scrittura siamo a livelli davvero bassi: laddove un pezzo non si salva nemmeno nel titolo, la redenzione è ardua – agghiacciante la tripletta Love Is Your Name, I Make My Own Sunshine e Gypsy Girl, che fa sembrare il terribile pezzo con Santana uscito anni fa un capolavoro di Burt Bacharach.
Neanche la magia di T Bone Burnett, qui affiancato da non so quanti altri, riesce a sistemare un minimo questo pasticcio, anche se il suo tocco si sente nei pezzi migliori dell’album, la bluesata Hold On e l’apripista My Own Worst Enemy. E quando un pezzo come l’ultimo citato, un cliché imbarazzante sulla rockstar che riflette sulle proprie marachelle tossiche passate e sui comportamenti da testa di cazzo che ne hanno segnato i rapporti umani, risulta essere uno dei pezzi migliori dell’album per distacco, significa che ci troviamo di fronte a una catastrofe che passerà inosservata per via del suo fautore, il quale grazie al suo passato troverà sempre qualcuno che, in buona fede o meno, ne difenderà le malefatte per credito passato.
Tyler ha sempre provato a fare il Mick Jagger, ma Jagger è sempre stato oculato anche nei suoi peggiori deliri commerciali, producendo ogni volta album dignitosi che non umiliano l’eredità dei fasti ormai andati. Anche l’arrangiamento in minore (solo per il verso, mentre rimane la progressione armonica originale nel ritornello) di Janie’s Got A Gun, uno dei singoli peggiori degli Aerosmith della rinascita, non fa altro che rimarcare la differenza qualitativa di scrittura con il resto dell’album.
“We’re All Somebody From Somewhere”: siamo tutti qualcuno che viene da qualche parte, ci ricorda retoricamente Tyler. Beh, non sarebbe male se qualcuno gli ricordasse che lui è Steven Tallarico da Boston, e, se proprio non riesce a essere nessun altro, potrebbe essere d’aiuto provare a essere sé stesso, una volta ogni tanto.
(2016, Dot)
01 My Own Worst Enemy
02 We’re All Somebody From Somewhere
03 Hold On (Won’t Let Go)
04 It Ain’t Easy
05 Love Is Your Name
06 I Make My Own Sunshine
07 Gypsy Girl
08 Somebody New
09 Only Heaven
10 The Good, The Bad, The Ugly & Me
11 Red, White & You
12 Sweet Louisiana
13 What Am I Doin’ Right?
14 Janie’s Got A Gun
15 Piece Of My Heart (feat. The Loving Mary Band)
IN BREVE: 1,5/5