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The Black Keys – Dropout Boogie

Non dev’essere un lavoro facile (lo sappiamo, c’è chi lavora otto ore eccetera, ragionate sul contesto) essere una rock band profondamente blues in un mondo in cui del rock e del blues non frega più una minchia a nessuno. O almeno così ci hanno detto, così ci dicono da secoli: il mercato lo fanno i giovani, e i giovani ascoltano la trap, al limite quell’indie rock prodotto da etichette difficilmente qualificabili come indipendenti. Posto che è sempre bene diffidare di boomer (ma ormai anche generation x’ers) che vi dicono “cosa piace ai gggiovani”, in questi ragionamenti ci sono almeno un paio di falle evidenti: la prima, che a chi ascolta musica e soprattutto a chi fa musica debba fotterne qualcosa di cosa gradisce il mercato al fine di allinearsi; si potrebbe obiettare che chi fa musica del mercato se ne dovrebbe occupare, ma sarebbe una pessima obiezione. Chi fa musica si dovrebbe preoccupare del piacere di far musica, che solo successivamente si dovrebbe tradurre in cercare di comprendere se della propria passione si può far mestiere.

Così pare essere, o meglio sembra tornato ad essere per il dinamico duo Carney&Auerbach, ringalluzziti dall’ottima accoglienza di “Delta Kream” (2021), il loro recente album di cover blues, sono tornati con Dropout Boogie, loro undicesimo lavoro di studio che arriva esattamente a vent’anni meno un giorno dal loro esordio con “The Big Come Up” (2002), rozzo, ruvido, verde, ma meraviglioso capitolo di quella storia eterna che si chiama blues. E “Delta Kream” non li ha solamente rimessi in moto, ma li ha anche rimessi a fuoco, dopo i due tentativi – non fallimentari, ma di certo non invecchiati benissimo – che sono arrivati dopo il successo di “El Camino” (2011).

Qui i Keys non provano improbabili rivoluzioni sonore, né cercano di riscrivere la storia, o allinearsi al mercato, un mercato che, anche in America, vede trionfare non solo la trap ma anche i Måneskin, a dimostrazione che il problema del “mercato” non è problema di genere. Wild Child, apripista e primo singolo, difatti, non si discosta molto da un template visto recentemente con “Lo/Hi” in “Let’s Rock” (2019) o “Fever” in “Turn Blue” (2014), ovvero un verso che aumenta la tensione fino a farla esplodere in un ritornello in cui la voce di Auerbach viene sotterrata dalle armonie dei cori che innalzano anche i decibel. Una riedizione dei due ultimi – sufficienti, perché i due sono atavicamente incapaci di sbagliare un colpo, ma non esaltanti – album? No, diremmo proprio di no.

Qui lo spirito di Kimbrough, evocato nelle cover di “Delta Kream”, si insinua nelle composizioni originali, che debordano di quello stesso spirito del quale scoppiava “The Big Come Up” senza volerlo però mai scimmiottare: Good Love, zztoppiana non solo nel suono ma anche nella presenza di Billy Gibbons come ospite, respira e fa respirare aria buona, nessuna fretta nell’entrare nel verso, nessuna fretta nel fare partire gli assoli (uno a testa per Auerbach e Gibbons). E non manca il soul che in “Brothers” (2010) li aveva innalzati da piccola band americana blues di successo a colosso di platino, sia nella ballatona un po’ swing How Long che in It Ain’t Over, assai più tesa. E Auerbach alla chitarra sembra divertirsi più del solito: i riff di Happiness e Baby I’m Coming Home (quest’ultimo, non sappiamo quanto volontariamente, scippato da “Midnight Rider” di Gregg Allman e portato in una dimensione differente) sembrano testimoniarlo evidentemente, così come la delicata ferocia dei fill sparsi qua e là per tutto “Dropout Boogie”.

Insomma, noi non ci sentiamo di dirvi cosa possa piacere ai “gggiovani”, né quanto il mercato, che vive di TikTok e stream, effimeri come lo erano i 45 giri nell’era pre-beatlesiana, sia disposto a far vivere il successo a un disco che avrebbe bisogno di cura, preziosa attenzione per la moltitudine di dettagli e pennellate dipinte dai due di Akron, di ascolti ripetuti e coinvolti. Ma pensiamo che dei primi se ne possano occupare benissimo loro stessi, e che sappiano loro cosa gli piace. E del secondo non ce ne frega veramente un santissimo cazzo.

(2022, Nonesuch)

01 Wild Child
02 It Ain’t Over
03 For The Love Of Money
04 Your Team Is Looking Good
05 Good Love (feat. Billy F. Gibbons)
06 How Long
07 Burn The Damn Thing Down
08 Happiness
09 Baby I’m Coming Home
10 Didn’t I Love You

IN BREVE: 4/5

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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