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The Cure – 4:13 Dream

UNDERNEATH THE STARS – È come se Robert Smith avesse avvertito, tutto ad un tratto, l’irrefrenabile desiderio di far ritorno, dodici anni dopo, in quel luogo a lui così caro: una spiaggia deserta e lontana dal tempo, la stessa che – com’è facile intuire – era stata già raccontata in “Jupiter Crash” (melodica ballata tratta dal tanto bistrattato “Wild Mood Swing”). Anche il mare ed il cielo, sempre più affollato, sono rimasti al loro posto. Questa volta, però, non è previsto alcuno show cosmico. Solo due cuori innamorati, laggiù vicino al bagnasciuga. Deliziosi sussurri messi a tacere dall’infrangersi delle onde. Baci infiniti che si spingono un po’ più in là: oltre le regole dello spazio. Se solo lui potesse, ruberebbe tutte quelle stelle curiose che bruciano sopra le loro teste e le disporrebbe sulla sabbia, quasi fossero delle piccole candele, fino a creare un cerchio, come a voler proteggere il loro incanto. È notte fonda, ma la luna sta già chiudendo i suoi occhi stanchi…

RISVEGLI? – Ciò che resta di ogni sogno, sostiene qualcuno, nient’altro è se non un’ombra vacillante gettata in pasto ai primi raggi di sole del mattino, di cui resta una piccola ed indecifrabile massa di brandelli. Tuttavia 4:13 Dream, capitolo numero tredici della prestigiosa discografia dei Cure, contrariamente alla componente onirica lasciata intendere dal suo titolo, è un album fortemente ancorato al presente, nella sua veste più attuale e concreta. Una condizione emotiva “dentro il tempo”, per meglio intenderci. Lontano anni luce dall’essere definito un concept – ammesso e concesso che per tale esso sia stato concepito – “4:13 Dream” è un gradevole florilegio intriso da una inattesa quanto tagliente ondata d’amara ironia (basti pensare a brani come The Reasons Why o This. Here And Now. With You) e un ritrovato sarcasmo (The Real Snow White), il che la dice lunga sul fatto che Smith abbia definitivamente riposto in cantina gran parte di quei leitmotiv che hanno fatto la fortuna della band nonché dell’intera epopea del dark britannico, ad eccezione di quel lirismo epico cui i nostri ricorrono, seppur con il contagocce, in soli due episodi: Underneath The Stars e The Scream. C’è spazio anche per una chanson de polémique come The Hungry Ghost, che a grandi linee riprende il discorso già avviato da Smith in “Alt.End” (da “The Cure”, 2004).

ROBERT-SIMON-JASON-PORL – Già nel 1996 Smith – pur non potendo contare inizialmente su una band a pieno servizio (il batterista Jason Cooper entrò in pianta stabile a registrazioni già avviate) – aveva tentato di riportare in auge, con il sopra citato “Wild Mood Swing”, le atmosfere e le tinte caleidoscopiche di un capolavoro come “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, ottenendo dei risultati (i più storceranno il naso) non del tutto deplorevoli. Perché non riprovarci ancora una volta, si sarà chiesto il nostro. Detto, fatto! E così, forti del rientro alla base del figliol prodigo Thompson e di un’inconsueta centralità del gruppo inteso in quanto tale (non è un caso che il tour mondiale che ha anticipato la pubblicazione del disco sia stato intitolato “4 Tour”), i Cure si sono chiusi in studio per una session di registrazione durata la bellezza di due anni, interruzioni comprese. Feeling ritrovato, sì, eppure, sin dal primo ascolto, si ha come l’impressione che più di un meccanismo non funzioni a dovere, e che la causa sia da rintracciare non tanto nel mancato utilizzo delle tastiere, quanto nel modo in cui le stesse sono state sostituite. Se da un lato, infatti, in più di un’occasione l’apporto di Thompson si rivela indispensabile (si ascoltino a tal proposito Sirensong, It’s Over come pure la più volte menzionata open-track), dall’altro, invece, è come se la sua chitarra appesantisca la struttura-canzone, eccedendo troppo spesso in virtuosismi all’insegna di effetti wha-wha e scale barocche, come accade in Switch e Sleep When I’m Dead. Discorso identico vale per il missaggio finale e, più in generale, per tutta la post produzione dell’album. Piuttosto che catturare il sound, pare che i nostri lo abbiano solamente tallonato a distanza, perdendolo clamorosamente di vista in determinate circostanze, come testimoniano le obliabili Freakshow e The Perfect Boy.

2008 | Geffen

IN BREVE: 3/5

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