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The Cure – Songs Of A Lost World

Cinquemilaottocentoquarantanove giorni. Tanti ne sono dovuti passare dall’ultimo lavoro in studio dei Cure, il controverso e non certo osannato “4:13 Dream” (2008, qui la nostra recensione), album che, nonostante la presenza di alcuni picchi (“Underneath The Stars”, “The Hungry Ghost” e “The Scream”), ha finito per scontare, e forse anche a caro prezzo, il deflagrante impatto sui processi di registrazione e produzione generato dal sommarsi di una serie di fattori negativi, esterni quanto interni alle dinamiche della band. In primis, la decisione assunta obtorto collo dall’allora quartetto (Smith, Gallup, Cooper, Thompson) di accantonare in itinere l’originario progetto di un disco doppio, assecondando le pressioni commerciali; il che, in soldoni, ha significato stravolgere l’architettura logico-concettuale dell’intera opera, compromettendone inevitabilmente intreccio e interazione tra le sue componenti (durante le session – come spiegato nel 2014 dallo stesso Robert Smith – erano stati realizzati in totale ben trentatré brani che, sempre secondo le intenzioni della rockstar inglese, avrebbero dovuto comunque trovare imminente collocazione – sviluppando, dunque, la pianificazione iniziale – in due distinte pubblicazioni rimaste a tutt’oggi inedite: “4:26 Dream” e “4:13 Scream”).

Ad aver rappresentato, poi, un altro elemento di forte criticità, probabilmente ancora più incisivo rispetto alle bagarre legate al suo final cut, è la resa complessiva del sound: ingolfato e ripetutamente soggetto a precipitosi cali di tensione, ma soprattutto orfano delle tastiere di Roger O’Donnell (allontanato dal gruppo nel Maggio del 2005, insieme ad un altro storico componente, il chitarrista Perry Bamonte) e, alla lunga, fin troppo indulgente nei confronti delle soluzioni stilistiche messe in piedi dal “momentaneamente” rientrato Porl Thompson (e ciò in inspiegabile controtendenza rispetto al mastodontico apporto che la sua sei corde aveva dato, dall’84 al ’92, a qualsiasi pezzo del catalogo Cure). Ma non è solamente questo a non aver funzionato in “4:13 Dream”. 

A venir meno sono state la magia onirica, l’urgenza espositiva e la spontaneità creativa, ossia le prerogative stesse del credo musicale della formazione britannica, in sostituzioni delle quali è sopraggiunta una inaspettata propensione all’adult rock, lasca e priva di mordente che nulla aggiunge alla storia dei Cure. D’altronde, i primi sintomi di ciò si erano già manifestati nel 2004, all’epoca dell’omonimo “The Cure”. In quel caso, però, Smith era prontamente corso ai ripari attraverso una riproposizione aggiornata (ma non sempre all’altezza della situazione) di atmosfere e tematiche collaudate, riuscendo nell’impresa, non affatto scontata, di attirare – grazie anche allo zampino del produttore Ross Robinson – una nuova generazione di fan. Quattro anni più tardi, la band non ha più assi nella manica da giocare e accetta suo malgrado di consegnare agli annali un disco che la porta a deragliare, ancora una volta, dal virtuoso percorso intrapreso a inizio millennio – dopo il divisivo “Wild Mood Swing” (1996) – con l’incantevole e non sempre compreso “Bloodflowers” (2000). Uno spreco perfetto.

Queste, accanto ad altre, le ragioni che forse hanno spinto Robert Smith ad attendere l’attimo propizio prima di rientrare in sala d’incisione e, in una prospettiva ex post, appaiono più che mai profetiche le parole da questi scelte per chiudere “It’s Over”, ultimo brano di “4:13 Dream”: “No, non posso più farlo”. Non è andata così per fortuna. Messe definitivamente alle spalle le “urlanti” outtakes del 2008, i Cure – la cui line-up nel frattempo ha operato alcuni cambiamenti (fuori il dimissionario Thompson, dentro O’Donnell e il chitarrista americano Reeves Gabrels) – non hanno di fatto mai interrotto la propria attività live in lungo e il largo per il globo, senza preoccuparsi di rilasciare nuovo materiale, almeno fino a quando – dopo una lunga stagione di annunci (inaugurata nel Giugno 2018), titoli provvisori, proclami ufficiali, anticipazioni live, rinvii ed enigmatici indizi – il 26 Settembre 2024, il conclave smithiano ha finalmente pronunciato la fatidica formula “habemus album”, scatenando un’epifania collettiva. 

Songs Of A Lost World è un enorme sudario, nero e intriso di lacrime, scagliato contro un sole mai così buio e spento. Robert Smith esplora le insenature del dolore, calandosi negli abissi più profondi dell’esistenza umana e del “suo” di mondo, tragicamente segnato nell’ultimo periodo da lutti e perdite. Una spirale discendente di sogni distrutti e speranze infrante, alimentata dagli uragani del tempo e dai baci avvelenati della grande mietitrice. È un suffragio aperto, ma i Cure non cercano una “cura”. Il nichilismo e il pessimismo di “Pornography” (1982) e “Disintegration” (1989) hanno ceduto il passo a una drammatica rassegnazione che risuona come un mantra malato gracchiato da ombre sinistre: “Tutto è andato. Tutto è finito”. È la vita, e a volte può essere tremenda. 

Registrato in una sorta di dimensione spaziotemporale altra (domiciliata, per comodità terrestre, in Galles presso i Rockfield Studios), “S.O.A.L.W.” è un album che suona al cento per cento Cure, orgogliosamente ancorato all’ortodossia del suo conio ma, al contempo, moderno e aperto – e qui sta il suo miracolo – alle contaminazioni più varie: dal post rock al dream pop, dall’industrial allo shoegaze. Ad affiancare Smith alla produzione e il missaggio è Paul Corkett (già dietro la console di “Bloodflowers”), straordinario nel maneggiare e rendere perfetti quei diamanti grezzi già offerti al pubblico durante i concerti del biennio ‘22-‘23 (AloneEndsongAnd Nothing Is ForeverI Can Never Say Goodbye A Fragile Thing). Otto tracce che, proprio citando una vecchia battuta di Robert Smith (Bilbao, 12 Luglio 2012), chiariscono l’importanza del collettivo Cure. Gallup, Cooper, O’Donnell e Gabrels offrono una gigantesca prova di coesione e abnegazione alla causa comune e al loro amato capitano. Indispensabili e veri, come i marinai di una nave in tempesta. 

I – ALONE

Ispirata alla poesia “Dregs”, composta nel 1899 dal decadentista inglese Ernest Dowson, Alone è una litania laica, tetra e rassegnata, sulla precarietà dell’esistenza umana dinanzi alla tirannia del tempo e del destino. La voce di Robert Smith per più di tre minuti resta sospesa nell’aria, in un’apnea profonda. La precede il dialogo serrato tra la chitarra di Gabrels e il piano di O’Donnell, in un crescendo epico che – sulla spinta del ritmo solenne imposto dalla batteria di Cooper – ripercorre quel solco così malinconicamente apocalittico scavato dai gelidi venti di “Plainsong” (da “Disintegration”) e di recente reso ancora più spettrale dal passaggio di band del calibro dei Mono, dei Maybeshewill e dei God Is An Astronaut. La prima strofa apre uno squarcio tra le tenebre, ma è un bagliore che dura solo pochi attimi: “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo…”, poi di nuovo buio. Un ultimo solitario affaccio sui precipizi di un mondo ormai perduto, i cui frammenti di memoria sono inesorabilmente condannati a collassare in un oblio eterno, sotto forma di fluttuanti cimeli atlantidei, e a spegnersi nello stesso modo in cui scompaiono le stelle stanche, lontano da qualsiasi altrove. E se è vero che anche “la fine” ha un suo suono, i Cure riescono qui a catturarlo nitidamente e a custodirlo in un abbraccio di pietra, quasi fosse un fuoco sacro da tramandare al cielo. È uno dei più bei testi mai scritti da Smith.

II – AND NOTHING IS FOREVER

È una ninnananna funerea, costruita su un sontuoso tappeto di tastiere e archi che, pian piano, lascia gradualmente spazio anche alle vampate degli altri strumenti. Gli arrangiamenti, eleganti e maestosi, rimandano alle arie presenti negli ultimi due lavori solisti del maestro Roger O’Donnell, “2 Ravens” (2020) e “7 Different Words For Love” (2022), e ciò non dovrebbe affatto stupire, ma anche alle cavalcate cosmiche di brani come “Kids Will Be Skeletons” dei Mogwai (da “Happy Songs for Happy People”, 2003) o “Your Hand In Mine” degli Explosions In The Sky (da “The Earth Is Not a Cold Dead Place”, 2003), entrambi, a loro volta, imperniati di riferimenti alle chitarre liquide tipiche della prima era dei Cure. Smith canta il morire della vita, la prepotenza della malattia e il rimpianto per un giuramento non mantenuto fatto ad una persona a lui cara: stargli accanto nel momento dell’ultimo respiro. In passato, aveva già affrontato un tema simile, con l’elegante pop song “Cut Here”, uno dei due inediti contenuti in “Greatest Hits” (2001), dedicata al compianto Billy MacKenzie degli Associates, morto suicida nel 1997. Solo che adesso i suoi sessantacinque anni hanno un peso diverso e gli suggeriscono altri modi di descrivere le cose, anche le più dure, quelle con le quali è difficile riconciliarsi, soprattutto dentro una canzone. E l’ex ragazzo immaginario lo fa senza concessioni alla retorica o ricorso a scorciatoie, sposando il punto di vista di chi ormai non c’è più: “Promettimi che sarai con me alla fine / Scivola giù vicino a me nel silenzio di un battito cardiaco”. E gli angeli non possono fare altro che scostarsi. Ancora lacrime. 

III – A FRAGILE THING

All’apparenza è il capitolo meno doom and gloom dell’album o, comunque, quello più marcatamente slacciato dal suo corpus narrativo. Eppure, la natura intrinseca di A Fragile Thing è tutt’altro che spensierata. Non una canzone d’amore ma sull’amore. Una riflessione – spietata e disincantata come sanno esserlo soltanto i protagonisti dei film di François Truffaut (o, per l’appunto, il medesimo Robert Smith quando omette la frase: “I love you”) – che contrappone alla resilienza dei sentimenti la loro stessa inclinazione a sgretolarsi (e perdersi) con altrettanta facilità se urtati dagli stravolgimenti della vita. Sullo sfondo, una cadenza incalzante forgiata sui giri di basso di Simon Gallup, come sempre eccellente nel serpeggiare tra una strofa e l’altra, allestendo di volta in volta scenari soavi e suggestivi che accompagnano l’evoluzione del brano fino al suo prillo conclusivo: “Non c’è niente che puoi fare per cambiare la fine”. È un saggio sul seminale contributo offerto dai Cure alla causa del pop più alto e raffinato, con il rammarico di non aver approfondito e debitamente sfruttato, a metà degli anni ’90, le geniali intuizioni intraviste in alcuni lati B del tanto bistrattato “Wild Mood Swing” come “Adonais” o “Waiting”, il cui DNA qui riverbera. 

IV – WARSONG

Fuori c’è la guerra: anfibi impolverati, filo spinato arrugginito e piccole scarpe sporche di sangue. Ma anche dentro l’anima di ciascun essere umano si combatte, ogni giorno, qualcosa. Smith intona un ragionamento antropologico sull’insensatezza della guerra e sulla natura innata dell’odio. Un brano graffiato da un sound marziale e catastrofico condotto da Cooper e O’Donnell (che rievoca tutta la drammaticità dei lavori più cupi di Nine Inch Nails e A Perfect Circle) e avvolto da una nube di polvere soffocante sollevata dalla chitarra di Gabrels: “Io voglio la tua vita / Tu vuoi la mia morte … Non c’è possibilità di trovare una via per la pace che non abbiamo trovato prima … Perché siamo nati per la guerra”. Orrore e desolazione.

V – DRONE:NODRONE

È il pezzo più hendrixiano che i Cure abbiano mai realizzato, lanciato a mille sui binari di “Like Cockatoos” (da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, 1986) e “Never Enough” (da “Mixed-Up”, 1990). Un ritmo nevrotico e incandescente, scandito dalla batteria di Cooper e dalle scale di Gallup, segue a distanza le iperboli di un testo criptico costruito su una combinazione labirintica di affermazioni e negazioni che parafrasa le antiche preoccupazioni orwelliane e pasoliniane sul potere del controllo sulla società moderna: “Perdo la ragione quando cado attraverso la porta notte nera infinita / Perso nella ricerca di altro / Almeno so come l’ho perduta prima”. Per la cronaca: tutto nasce dal fastidio provato da Smith per un drone che sorvolava la sua abitazione…

VI – I CAN NEVER SAY GOODBYE 

“Sono in ginocchio e sto male dentro Qualcosa di malvagio arriva da questa parte / Per rubare la vita di mio fratello”. Spesso, sono le canzoni stesse a scegliere i propri autori. È il caso di I Can Never Say Goodbye – il cui titolo è un omaggio esplicito al “Macbeth” di William Shakespeare e a “Something Wicked This Way Comes” (1962) di Ray Bradbury – dedicata da Robert Smith al fratello Richard. Echi degli epitaffi di Bowie (“Blackstar”) e Cohen (“You Want It Darker”) risuonano in una ballata che trasuda gli umori del Novembre inglese e che per intensità lirica si riallaccia a “It Can Never Be The Same” (brano “senza casa” che i Cure dal 2016 propongono dal vivo) e, più in generale, al sentiment di “Bloodflowers”. Una poesia struggente, così intima e privata, che si ha quasi pudore ad ascoltare senza chiedere prima permesso. 

VII – ALL I EVER AM

La silhouette scapigliata non ha ancora perso la propria ombra e le polaroid di “Pictures Of You” non si sono sbiadite più di tanto. Tornano in mente le parole di Brandon Lee pronunciate nel corso della sua ultima intervista: “Siccome non sappiamo quando moriremo, siamo portati a pensare alla vita come ad un pozzo inesauribile. Eppure ogni singolo fatto accade solo per un certo numero di volte… quante volte ci ricordiamo di un certo pomeriggio della nostra infanzia… che fa così profondamente parte del nostro essere, senza il quale non riusciremmo nemmeno a concepire la nostra esistenza?”. In All I Ever Am quei ricordi prendono vita simultaneamente, facendo sorgere il dubbio – almeno nel suo autore – che possano esercitare una forza autonoma sulla memoria, riuscendo financo a cambiare l’immagine che ciascuno ha di sé: “Spreco tutto il mio mondo in questo modo: tempo e ricordi / E tutto per paura di ciò che troverei se mi fermassi e svuotassi la mente da tutti i sogni e tutti i fantasmi, tutto quello a cui mi aggrappo”. Il cantato di Smith è una cometa folgorante che sfiora l’aurora sulla scia di chitarre e basso virgiliani: un ultimo spettacolo prima della fine. 

VIII – ENDSONG

Nelle sue “Lezioni Americane” (1985) Italo Calvino, a proposito di Giacomo Leopardi, scriveva: “Le numerose apparizioni della luna nelle sue poesie occupano pochi versi ma bastano a illuminare tutto il componimento di quella luce o a proiettarvi l’ombra della sua assenza”. Ed è altamente leopardiana quella “rosso sangue” evocata nell’incipit di Endsong. L’intro, collerico e inquieto (nella tradizione di pezzi come “Disintegration” e “Bloodflowers”), è un volo ad ali spiegate sulle rovine del “mondo perduto”. Smith sermoneggia un breviarium di stampo bergmaniano sul significato della vita. Sono le parole di un artista che, come un telamone sconfitto, sa di non potersi sottrare agli obblighi di verità che la memoria del tempo impone: “Ricordando le speranze e i sogni che avevo / Tutto quello che dovevo fare / E chiedendomi che fine abbia fatto quel ragazzo e il mondo che chiamava suo / E sono fuori al buio chiedendomi come sono diventato così vecchio”. E quando il sipario cala, in ossequio al suo canovaccio circolare, si riparte dal punto d’origine: “Rimasto solo con niente alla fine di ogni canzone”. Monumentale.

“Songs Of A Lost World” è il miglior modo per ripagare l’attesa di tutti i fan dei Cure. In quei cinquemilaottocentoquarantanove giorni ci sono anche i loro sogni, le loro speranze, la loro fede. 

2024 | Fiction/Capitol/Polydor

IN BREVE: 4,5/5

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