Parliamoci chiaro: i Mars Volta sono sempre stati uno di quei progetti che si ama o si odia, senza vie di mezzo. La formazione a ridosso dello scioglimento di quella forza della natura che erano gli At The Drive-In, la voce di Bixler-Zavala che comprendiamo possa a tratti irritare unita al loro prog spaziale, roba che ha fatto pesantemente a pugni con il post-hardcore degli ATDI. Insomma, ce n’era per farseli stare sulle scatole… eppure. Eppure c’è che “De-Loused In The Comatorium”, il loro esordio del 2003, resta ancora oggi, a quasi vent’anni dalla sua uscita, uno dei migliori lavori partoriti dal nuovo millennio. Ma c’è anche che il seguito della loro esperienza discografica, al netto di qualche passaggio sparso nei vari altri album pubblicati, non è certo stato all’altezza di quel debutto. Lo scioglimento di inizio 2013, i molteplici altri progetti cui si sono dedicati Omar Rodríguez-López e Cedric Bixler-Zavala e l’estemporaneo ritorno degli At The Drive-In, sono il resto di una storia arzigogolata come la loro musica.
Adesso i Mars Volta sono tornati ufficialmente e lo hanno fatto con un un album semplicemente omonimo, circostanza che avrebbe potuto significare una forte riaffermazione del loro marchio. Invece The Mars Volta è come fosse il primo disco di un’altra band, un’esperienza nuova di pacca che avrebbe tranquillamente potuto sfruttare un’altra ragione sociale senza destare sospetti. Come avrete intuito, i punti di contatto tra le due ere discografiche della band rasentano praticamente lo zero, quattordici tracce di cui solo un paio oltrepassano, di poco, i quattro minuti, un formato in cui non trova spazio nessuna delle mastodontiche divagazioni cui i Mars Volta avevano abituato e che erano un po’ la cifra della loro intera esperienza, inframmezzate da più piccole, brevi e veloci puntate.
Ma c’è di più oltre alle durate dei pezzi, che in fondo sono solo numeri: c’è che qui Rodríguez-López e Bixler-Zavala hanno deciso in un modo o nell’altro di farsi pop (come definireste altrimenti una ballatona come Cerulea?), di giochicchiare con le melodie come fossero pedine di una dama che si mangiano a vicenda inglobandosi (Vigil ne è un esempio), di instillare germi prog in un folk sbilenco (Palm Full Of Crux, Tourmaline), di flirtare con qualcosa che oseremmo definire r’n’b (Shore Story), di usare il jazz come specchietto per noi allodole (Flash Burns From Flashbacks, Equus 3), di incagliarsi in cespugli sintetici (Graveyard Love, ma anche Collapsible Shoulders), di condire il tutto con quelle vene latine e caraibiche che in fondo sono sempre state lì pronte a esplodere (Blacklight Shine, Que Dios Te Maldiga Mí Corazon). E, udite udite, lo hanno fatto a dir poco bene.
È davvero un bellissimo problema questo inatteso e omonimo ritorno dei Mars Volta, perché si tratta senza alcun dubbio di un disco che suona benissimo, compatto, anche ispirato, che mette in luce ancora un’altra delle tante facce compositive della premiata ditta Rodríguez-López/Bixler-Zavala, quella più intellegibile che mai era venuta fuori prima. Ma nella sostanza non ha nulla, ma proprio nulla, dannatamente nulla, dei Mars Volta che conoscevamo e che magari, neanche tanto inconsciamente, speravamo sarebbero prima o poi tornati alla ribalta. A pensarci bene, però, le nostre aspettative sono solo ed esclusivamente affaracci nostri, “The Mars Volta” è un lavoro di ottima fattura e come tale va considerato: il consiglio è di goderselo senza pensare a nient’altro che esuli i suoi tre quarti d’ora di percorrenza.
(2022, Clouds Hill)
01 Blacklight Shine
02 Graveyard Love
03 Shore Story
04 Blank Condolences
05 Vigil
06 Que Dios Te Maldiga Mí Corazon
07 Cerulea
08 Flash Burns From Flashbacks
09 Palm Full Of Crux
10 No Case Gain
11 Tourmaline
12 Equus 3
13 Collapsible Shoulders
14 The Requisition
IN BREVE: 3,5/5