“Drunk”, invece, come i dischi summenzionati (e non è una coincidenza che Thundercat sia protagonista essenziale in ognuno di essi) è un passo avanti. Nella più totale stagnazione che ha afflitto il jazz, intossicato da un purismo insensato e inetto e dalla convinzione risibile che ciò che era innovativo negli anni ’40 debba essere non solo il parametro per giudicare insindacabilmente tutto ciò che è venuto dopo, ma anche l’unico linguaggio meritevole di essere usato, questo gruppo di musicisti ha deciso di fare quello che una gran parte dei musicisti che ha calcato questa verde terra del Signore dice di voler fare (ma raramente fa): fottersene di ogni regola, di ogni parametro, di ogni convenzione. Questo gruppo straordinario di personaggi, ha inteso ciò che Bird, Miles Davis o Mingus volevano con la loro musica, molto al di là di strutture armoniche ed eccellenze stilistiche.
E in molti storceranno il naso a sentire Kenny stramaledetto Loggings (sì, quello di Footloose e Danger Zone, colonna sonora di “Top Gun”) ospite in Show You The Way insieme al compare Michael McDonald, perché il soft rock è merda e non si può e non si deve contaminare il jazz con cotali impurità; storceranno il naso perché c’è Pharrell in The Turn Down, che c’azzecca uno come Pharrell, quello che è ospite ovunque ci sia puzza di classifica, con la sacralità del jazz? E poi Wiz Khalifa, Kendrik Lamar… rapper? Per carità! E anche Kamasi Washington? Ma perdio, questo sembra un album di Mark Ronson, Duke Ellington non approverebbe di certo.
A Thundercat (e a noi, per inciso) fregacazzi di tutta questa sacralità. Fregacazzi della banalità disarmante con la quale il cinema, perfino nel 2017, narra il jazz, simile alle riedizioni del blues palatabili per il largo consumo che faceva WC Handy. Non gli interessa nemmeno se il suo album conta, in 51 minuti, la bellezza di 23 canzoni, contravvenendo alla mastodontica regola del bebop per cui nei pezzi ci si lancia in lunghi assoli, divisi in turni equi per tutto l’ensemble. E dato che non gli frega un cazzo e ha un talento spropositato, tira fuori l’album più straordinario della sua carriera, un concept che con molto umorismo affronta l’ubriachezza sotto diversi aspetti (tra i testi si può trovare la franchezza di Friend Zone: “Don’t call me, don’t text me after 2am / Unless you plan on giving me some / Cause I got enough friends”; oppure la routinaria quotidianità di Captain Stupido: “Comb your beard, brush your teeth / Still feel weird / Beat your meat, go to sleep / I think I left my wallet at the club”).
Un ascolto non semplice, perché è musica ricca, che va capita e digerita per bene prima di poter essere apprezzata appieno. A dispetto della quantità non indifferente di ospiti e della vastità di generi affrontati nei due/tre minuti di ogni pezzo, Thundercat riesce a dare a questo “Drunk”, suo quarto album solista e primo da quattro anni a questa parte, un’impronta talmente personale che non potrebbe essere nessun altro. Un album ricco e il cui impatto è difficile prevedere, senza uno sguardo dalla distanza. Per quello è difficile parlarne, perché dalla nostra prospettiva è impossibile capire se resterà, con gli altri album citati, un bellissimo capitolo isolato della musica del nuovo millennio o se sarà seminale. In attesa di scoprirlo, ci godiamo un altro lavoro eccellente.
(2017, Brainfeeder)
01 Rabbot Ho
02 Captain Stupido
03 Uh Uh
04 Bus In These Streets
05 A Fan’s Mail (Tron Song Suite II)
06 Lava Lamp
07 Jethro
08 Day & Night
09 Show You The Way (feat. Michael McDonald & Kenny Loggins)
10 Walk On By (feat. Kendrick Lamar)
11 Blackkk
12 Tokyo
13 Jameel’s Space Ride
14 Friend Zone
15 Them Changes
16 Where I’m Going
17 Drink Dat (feat. Wiz Khalifa)
18 Inferno
19 I Am Crazy
20 3AM
21 Drunk
22 The Turn Down (feat. Pharrell)
23 DUI
IN BREVE: 4,5/5