“Berlin di Lou Reed è un disastro, che porta l’ascoltatore in un demimonde distorto e degenerato di paranoia, schizofrenia, degrado, violenza indotta da pillole e suicidio. Ci sono dischi che sono così palesemente offensivi da far desiderare un qualche tipo di vendetta fisica sugli artisti che li perpetrano. L’unica giustificazione di Reed per questo tipo di performance (che non è realmente eseguita, quanto piuttosto parlata e urlata sulla produzione zoppicante di Bob Ezrin) può essere solo che questa era la sua ultima possibilità di una carriera un tempo promettente. Addio, Lou” (Stephen Davis, Rolling Stone Magazine, 1973)
“Ho letto di questo ciclo di canzoni che parlano di due drogati che cadono nel sadomasochismo in una Berlino emozionantemente decadente che è… come si dice? Un ‘risultato artistico’, anche se non vi piace molto. Beh, la categoria è sicuramente reale – descrive un sacco di Ornette Coleman e pure un po’ di Randy Newman, per non dire di un sacco di libri – ma si dà il caso che qui sia una stronzata. La storia è scadente […] [e] la musica è solo sufficiente – persino Bob Ezrin non riesce a creare una distanza tra i personaggi falliti e il loro creatore falliti quando il creatore canta. […]” (Robert Christgau, Creem, 1974)
A soli sei mesi dal successo internazionale di “Transformer” (1972), prodotto da Bowie e con la chitarra di Mick Ronson, che aveva fatto di Lou Reed la più improbabile delle star del glam rock, con tanto di singoli radiofonici come “Vicious” o “Walk On The Wild Side” (forse la prima canzone nella storia della Billboard HOT 100 a parlare esplicitamente di pompini, prostituzione, transessualità), il buon vecchio Lou prende una banale domanda del produttore Bob Ezrin – “fai dei buoni inizi ma non concludi le storie… cosa è accaduto, ad esempio, ai due amanti di Berlin nel tuo primo disco?” – e ne ricava uno dei più oscuri concept album della storia della popular music e del rock. Una coppia di amanti nella Berlino del muro, che affoga in droga, violenza domestica, paranoia, prostituzione, suicidio: se la RCA si aspettava di aver trovato una nuova popstar a farla ricca, ricevette invece una bella travata sul ghigno. Forse la sua opera poeticamente più compiuta (persino più dei lavori con i Velvet Undergound, dai quali ripesca i temi musicali di “Stephanie Says” e “Oh Gin” per trasformarli in Caroline Says e Oh Jim), “Berlin” pesca dal matrimonio di Lou con Bettye Kronstad e le sue storie di violenza, tossicodipendenza, paranoia; ma in fondo non si discosta molto dai temi sinora trattati dall’artista newyorkese.
Ma l’improvviso, drammatico dietrofront dal tono apparentemente più leggero del “disco glam con Bowie” dà un’occasione imperdibile al gotha della critica rock per chiamarlo senza troppe metafore con quei termini che hanno sempre pensato, rivolgendolo al protagonista Jim: ‘sto psicotico, paranoico, violento, tossico. Sì, tossico, ma non i divertenti tossici inglesi immersi negli acidi e nelle porte della percezione che si aprono (le aveva aperte pure Morrison, ma quello era un beone probabilmente morto di overdose da eroina, non conta) con i vestiti colorati e le Lucie nel cielo coi diamanti. No, questo è un tossico vero, un reietto, uno schifoso, un ultimo. E con tutto il proprio progressismo borghese ostentato, probabilmente a Rolling Stone Magazine gli ultimi non facevano troppa simpatia – come peraltro potrebbero indicare le recenti parole del suo fondatore a commento del suo ultimo libro. Il tossico, dicevamo: il tossico va stroncato ragazzi, ché andava magari bene quando stronzeggiava con Bowie, ma qui proprio no. E anche oggi, quando la distanza dall’uscita dell’opera consente di apprezzarne la reale, gargantuesca dimensione artistica, è sempre importante premettere quanto sia “problematica”, per via delle sin troppo evidenti affinità con le reali vicende di casa Reed.
A prescindere da qualunque considerazione sull’apprezzamento altrui presente o passato (che ferì profondamente il suo autore, peraltro), “Berlin” rimane a distanza di anni uno dei più grandi album di Reed, ma non solo: un album che sta al pari con livelli di poesia del miglior Dylan, e la miglior produzione di Ezrin (che per i più distratti sarebbe quello di “The Wall”), che pennella suoni in maniera sublime, dando all’autore esattamente lo spazio necessario in ogni situazione e fornendo un tappeto sonoro sofisticato alle composizioni raffinate, spesso recitate di Reed. Un album che è un esempio seguito pochissimo: coraggioso, drammatico senza scadere nel melodramma, musicalmente e liricamente perfetto e ricolmo di verità.