Si dice che, affinché una storia sia davvero credibile occorra creare un ponte che colleghi il narrato all’autore. Questo è il motivo per cui prima di parlare del mondo sommerso di The Ghost Of Tom Joad occorre tornare al 2 Novembre del 2014, data di inizio dell’operazione Triton, atta a gestire la “sicurezza” delle frontiere dell’Unione Europea. Allo sbarco del 2 Novembre a Catania erano più di duecentocinquanta i migranti scesi in porto, siriani per la maggior parte. Tra questi, un intero nucleo familiare. Tre intere generazioni, da uomini di ottant’anni fino ad arrivare a minuscoli esseri con alle spalle la loro prima settimana di vita. Una settimana, sì, perché il più piccolo, un neonato di appena sei giorni, era nato in mare, sulla nave svedese che aveva recuperato i migranti a largo delle coste catanesi. Ci volle un po’ per far capire a quella famiglia che non sarebbe stato facile raggiungere i parenti in Germania senza un passaporto valido e trascorse più di una settimana per il recupero del certificato di nascita del neonato che avrebbe evitato l’apertura della pratica di adozione. Ma ci riuscirono: aiutati da più di una persona gentile, travestiti con abiti occidentali presero un treno e raggiunsero Monaco.
Invertendo i contesti storici e geografici il risultato non cambia: quelle tre generazioni erano i Joad, più di ottant’anni dopo. Intere famiglie insieme a compagni di viaggio improvvisati tentano di spostarsi rivendicando una libertà di movimento che presto si tramuta in povertà, emarginazione e molto spesso in morte ancor prima di arrivare. Bruce Springsteen non fu il primo a ispirarsi all’epopea di Tom Joad, la famiglia dell’Oklahoma che durante la Grande Depressione americana attraverserà la Route 66 fino alla California, in cerca di un lavoro, di una casa, di una comunità ma troverà solo fame e schiavitù. Oltre a John Ford, regista dell’adattamento cinematografico del romanzo di Steinbeck, molti altri artisti si ispirano al romanzo, uno tra tutti Woody Guthrie, talmente tanto fiducioso che tutta la comunità sarebbe diventata prima o poi una grande anima da chiamare uno dei figli Joad.
Il Tom Joad di Springsteen non è né vincente né martire, ma uno spettro, testimone silenzioso dentro un vagone merci carico di ragazzi, ex galeotti, peccatori, ladri e anime gentili, anziani e neonati, come la famiglia siriana arrivata a Catania quel giorno di ognissanti di sei anni fa. Il Tom Joad di Bruce Springsteen, nel 1995, aleggia sui migranti messicani che cercano di varcare il confine nel disperato tentativo di raggiungere la California. Bruce Springsteen li legge sulle cronache dei quotidiani losangelini, dove risiede buona parte dell’anno. Il suo fantasma, ciò che resta dello spirito di Tom Joad, esce fuori dalle prime note dell’armonica della title track, come fosse un genio della lampada per profughi, reietti ed esiliati: “Men walkin’ ‘long the railroad tracks / Goin’ some place, there’s no goin’ back / Highway Patrol choppers comin’ up over the ridge / Hot soup on a campfire under the bridge / Shelter line stretchin’ round the corner / Welcome to the new world order”. Benvenuti al nuovo ordine mondiale.
Tom Joad li osserva, ragazzini che sniffano e spacciano persi dentro i 5000 ettari di Balboa Park; alcuni provengono dallo stato di Sinaloa, in Messico, e producono metanfetamine alla Central Valley, tutti li chiamano Sinaloa Cowboys; sta accanto a Charlie, ex detenuto che cerca di rigare dritto in Straight Time tra due bimbi piccoli da crescere e lo sguardo poco complice di una compagna sposata più per riscatto sociale che per amore. È tossico il viaggio dello spettro di Tom Joad, come le scorie della Jeanette Furnace, o Sweet Jane, come la chiama Springsteen, nella città di Youngstown, in Ohio; ritrova anche una parte di se stesso, Tom Joad, dentro i compagni di viaggio di The New Timer, lavoratori stagionali nella raccolta delle pesche, esattamente come i Joad al loro arrivo in California. La guerra tra poveri descritta in Galveston Bay, in cui l’arrivo del cittadino vietnamita Le Bin Son scatena l’ira dei pescatori del golfo texano che lo accusano di non far altro che rubare il loro lavoro. Prega Tom Joad e spera di varcare il confine e di bere da acque pulite e benedette da Dio, in Across The Border.
“The Ghost Of Tom Joad” vendette pochissime copie, in proporzione ai numeri stratosferici dell’artista, ma fu anche l’unico disco di Springsteen in grado di procurargli un Grammy nella categoria miglior album folk contemporaneo nel 1997. La cifra stilistica in chiave folk di Springsteen è vincente, sia in studio che dal vivo, nonostante si tratti di una dimensione mai sperimentata davvero dall’artista. A “Nebraska” (1982) infatti non era seguito alcun tour e “The Ghost Of Tom Joad” fu la prima volta in cui Bruce Springsteen si trovò davvero solo, in compagnia della sua chitarra e del suo pubblico. Inutile aggiungere che il risultato fu sorprendente e quell’acustica è una magia che continua ancora oggi, come le centinaia di serate al Walter Kerr Theatre o tutte le volte che, congedata la E Street, al termine di un live ritorna sul palco per concedersi una “Thunder Road” meravigliosamente nuda. Ogni traccia di “The Ghost Of Tom Joad” è suonata lievemente, con una sezione ritmica appena accennata e testi letti, più che cantati, a voce bassa e denti stretti.
La storia di Tom Joad è la storia di ogni migrante, è il personaggio di Steinbeck nei primi del ‘900, il soggetto di John Ford negli anni ‘40, il Tom Joad di Woody Guthrie, la famiglia Springsteen che viaggia dal New Jersey alla California dopo il licenziamento del padre Douglas. “The Ghost Of Tom Joad” è l’arrangiamento elettrico dei Rage Against The Machine del 1997, la collaborazione tra Tom Morello e lo stesso Springsteen nel 2014, il suono popolare dei Modena City Ramblers nel 2015. I Joad di oggi sono i padri e le madri che urlano da un gommone di aver perso i loro figli. Il fantasma di Tom Joad è nella voce dei bambini che dal fondo del Mediterraneo sussurrano “ovunque c’è qualcuno che lotta per essere libero, guarda nei suoi occhi mamma, e mi vedrai”.