“Era il 3 Luglio, un lunedì mattina. Presi l’autobus della Broadway diretto a Philadelphia attraversando la mia amata Camden e annuii con fare rispettoso al triste Hotel Walt Whitman. Scesi a Market Street ed entrai da Nedick. Infilai un quarto di dollaro nel jukebox, feci suonare due lati di Nina Simone e mi godetti un caffè e una ciambella d’addio. Attraversai la Filbert e raggiunsi la stazione degli autobus dirimpetto alla bancarella di libri che avevo saccheggiato negli ultimi anni. Fu un brutto colpo scoprire che il prezzo del biglietto per New York era quasi raddoppiato dall’ultima volta che avevo viaggiato. Non riuscii a comprare la corsa e mi rifugiai in una cabina telefonica per riflettere. Valutai l’eventualità di chiamare mia sorella nonostante provassi troppa vergogna per tornare a casa, ma proprio lì, sul ripiano sotto il telefono, ecco una borsetta. All’interno c’erano un medaglione e trentadue dollari, quasi la paga di una settimana del mio ultimo lavoro. Contro i miei migliori propositi mi tenni i soldi, ma lasciai la borsetta sul piano della biglietteria nella speranza che la proprietaria potesse quantomeno ritrovare il medaglione. Posso soltanto ringraziare questa sconosciuta benefattrice. A lei devo quell’ultimo incoraggiamento, un segno di buon auspicio per una ladra. Presi il lascito della borsetta quasi che fosse stata la mano del destino a spingermi ad accettarlo. Ero superstiziosa. Quel giorno era lunedì; ero nata di lunedì. Era una giornata perfetta per arrivare a New York. Nessuno mi stava aspettando. Ma mi aspettava ogni cosa”.
É il 1967 quando Patti Smith si sveste dagli ultimi scampoli di un tessuto di provincia e raggiunge New York, compiendo il viaggio che le cambierà la vita per sempre. L’incontro con Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs, Andy Warhol, Sam Shepard, Lou Reed, Bob Dylan, le serate al CBGB, la permanenza al Chelsea Hotel, ma più di tutto l’’unione sacra e viscerale che la legherà per sempre a Robert Mapplethorpe, contribuiranno a completare lo scheletro di una delle figure più importanti del XXI secolo. “Voglio essere una poetessa, non una cantante” era il mantra che riecheggiava nelle pareti della camera n. 204, al Chelsea Hotel, cui faceva eco Mapplethorpe: “Puoi essere entrambe”.
Lo spazio comunicativo verbale di Patti Smith è già stato riempito a sufficienza: l’aver mantenuto sin da bambina un ritmo di lettura matto e disperato e una naturale propensione per la scrittura poetica fanno sì che Patti Smith si sia spinta ben oltre le normali attitudini di una poco più che ventenne. La superficie del suono invece è ancora insatura. “Dovresti cantare di più”, le ripeteva Robert ogni volta che la sentiva intonare un pezzo di Edith Piaf. Una propizia congiuntura astrale fece sì che Patti Smith portasse a naturale saturazione quello spazio di suono ancora vuoto. La collaborazione con Lenny Kaye che la accompagnava con una chitarra scarna durante la letture delle sue poesie nella chiesa sconsacrata di St. Mark, le 1500 copie di “Hey Joe / Piss Factory” vendute nelle librerie e nei negozi indipendenti a due dollari l’una, le attenzioni di William Burroughs durante le esibizioni dell’artista al CBGB, la sensazione di poter espandere le sonorità ancor più che con un trio, portarono gli angeli ad annunciare la chiamata.
Horses fu inciso in cinque settimane, con John Cale alla plancia di comando dello studio A degli Electric Lady, Lenny Kaye alla chitarra, Ivan Kral al basso elettrico, Richard Sohl al pianoforte, Jay Dee Daugherty alla batteria e l’apporto di Tom Verlaine dei Television a Break It Up e di Allen Lanier a Elegie. “Horses” non è un album bello, nel senso canonico di bellezza. Ma è un disco pieno di contaminazioni, di arte e di vita, nonostante Patti Smith fosse circondata da pensieri di morte e da quel momento in poi non solo da pensieri ma da decessi reali. È un disco seducente nel suo essere canonicamente non bello ma dissonante, cacofonico, osceno, sfuggente. Bellezza e perturbante estetico sono i due opposti che convivono dentro “Horses”. Tolto un breve periodo di vita dei The Fug, nei primi anni ‘60, Patti Smith fu la prima a sdoganare la corrente del punk poetico da un confine vago e a fargli raggiungere uno status di forma letteraria.
I protagonisti di “Horses” vivono in una dicotomia costante, a cavallo tra violenza e tenerezza, sessualità carnale e amore empirico, vita e morte. Gloria mescola il componimento “Oath” alla traccia dei Them con Van Morrison, Redondo Beach mette in scena un amore lesbo con una ragazzina vittima di un dolce suicidio e un piglio electro reggae, arginato da John Cale che a quanto pare convinse Patti Smith a scartare un accento finto caraibico durante le sessioni di canto. Birdland prende le mosse da un passo di “Un libro dei sogni” di Peter Reich, con il padre trasformato in un alieno dopo la sua morte e prosegue materializzando la sensazione da creatura aliena che aveva accompagnato Patti Smith nel corso della sua adolescenza; Kimberly, destinata all’ultimogenita della famiglia Smith e scritta con Ivan Kral e Allan Lanier dei Blue Oyster Cult, con cui Patti Smith ebbe una relazione destinata a finire poco dopo; Break It Up, il racconto di un sogno in cui Jim Morrison con ali fuse con il marmo, lotta fino a raggiungere la libertà.
Land, una delle composizioni più note Patti Smith, combina in quasi dieci minuti punk, garage, new wave, a riferimenti ai The Wild Boys di William Burroughs, ad Arthur Rimbaud, all’eroina, alla Bibbia e probabilmente persino al Corano. Contenuta in uno dei finali di stagione di “Millennium”, la traccia fa da sfondo all’isteria di uno dei personaggi principali provocata dalla notizia di una pandemia. Ironia della sorte. Infine, Elegie è per Jimi Hendrix, incontrato nel 1970, a un mese dalla sua morte.
Dentro “Horses” decantano gli istinti ed è una magniloquente ode al rock’n’roll per averle fatto superare un’adolescenza difficoltosa, per la gioia che provava nel ballare, per la forza morale che scopriva nell’assumersi le responsabilità delle sue azioni. Gli seguiranno “Radio Ethiopia” (1976), “Easter” (1978), che custodisce “Because The Night”, “Wave” (1979) e “Dream Of Life” (1988), ultimo album di Patti Smith la cui cover fu una foto di Mapplethorpe. Con “Horses” Patti Smith spalancò le porte a un linguaggio poetico del punk, alla possibilità di aprire la poesia agli autodidatti e renderla popolare come una disciplina che non richieda necessariamente una preparazione accademica, mantenendo salda la sua fede nel potere del rock di purificare, lenire, guarire, trasformare.