“La bellezza del punk è che ha tante interpretazioni quante la Bibbia”. Niente di più vero: il punk è libertà, democrazia, uguaglianza, Inghilterra dissidente, disagio adolescenziale americano, hardcore, crossover. Altrettanto verosimili sono i paradossi, mai del tutto superati, su cui ha sempre viaggiato: perennemente in bilico tra strafottenza e attenzione allo stile, dispregio e credibilità, libertà e fissazione di regole ferree la cui trasgressione ha puntualmente portato all’etichetta di “poser”.
Molto prima di essere consacrati come convertitori del punk da rock a pop, i Green Day erano profondamente radicati nella cultura stoner dell’epoca; ciononostante il pubblico che li seguiva da “39/Smooth” (1990) a “Kerplunk” (1992), era abbastanza certo di un possibile passaggio della band a una major. Quello che invece era impensabile e tanto meno prevedibile era il ruolo che avrebbe interpretato Dookie: un trojan in grado di imborghesire il punk facendolo entrare nelle case dell’adolescente medio.
Prodotto da Rob Cavallo, vice presidente della Reprise, registrato ai Fantasy Studios di Berkley e distribuito l’1 Febbraio 1994, “Dookie”resuscitò la scena punk hardcore californiana, regalando al genere materiale nuovo di zecca a cui attingere per far sì che il filone potesse mantenersi in vita per molti anni a seguire. Ma il passaggio dalla Lookout! Records a una major non avvenne in un clima rilassato: la frase “dite ai Green Day di andare affanculo per aver portato MTV nella nostra scena” tuonava su alcuni volantini orbitanti attorno al 924 Gilman Street.
Testi leggeri, melodie e arrangiamenti ammiccanti non erano una novità né per il mercato né per gli stessi Green Day. In totale, sono cinque i singoli estratti da “Dookie”: Longview, Basket Case, Welcome To Paradise, When I Come Around e She. Una menzione a parte meritano la prestazione di Tré Cool in Burnout e il riff di basso potentissimo di Mike Dirnt, frutto dell’allucinazione da LSD, in Longview. Basket Case rientra perfettamente nell’alea del paradosso del punk: per nulla convincente agli occhi di Billy Joe Armstrong, modificata decine di volte, a rischio di esclusione dall’album, si trasforma nel manifesto della band californiana e delle generazioni pop punk per il decennio a seguire.
La copertina, opera del disegnatore amico della band Richie Bucher, è carica di simbolismi, personaggi e rappresentazioni: le raffinerie della East Bay, un dirigibile con le scritte “Bad Year” e “Eat At Chef Wong’s” (un riferimento a “Rocket To Russia” dei Ramones), lo slogan “Free Huey” per Huey Newton, attivista, rivoluzionario e fondatore del Black Panther Party (simbolismo che nel 2004 tornerà nella copertina di “American Idiot”), Angus Young nella stessa posa della copertina di “Let There Be Rock” degli AC/DC, Patti Smith raffigurata esattamente come nell’art work di “Easter”.
“Dookie” fu realmente una sorta di malware in grado di annullare la distanza tra gli ascoltatori dei Green Day e quelli degli Oasis, trasformando la band da vincitrice di un Grammy per Best Alternative Album nel 1995 a marchio con le t-shirt vendute da Asos o H&M. I Green Day non raggiungeranno neanche con “American Idiot” (2004) l’equilibrio perfetto di “Dookie”: un punk grezzo al punto giusto in grado di mettere – temporaneamente – d’accordo una parte di punkettari nostalgici e una buona fetta di pubblico non abituato a sonorità eccessivamente pesanti. Ma “Dookie” li porterà, più o meno consapevolmente, a qualcosa di molto vicino all’immortalità.