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Gli R.E.M. entrano nell’Olimpo del rock americano: esce Out Of Time

Quando il 19 Febbraio del 1991 arriva nei negozi il 45 giri di Losing My Religion, appare subito chiaro a chi aveva seguito gli R.E.M. fin dagli esordi che quello che stava per vedere la luce sarebbe stato con ogni probabilità l’album più importante della carriera di Michael Stipe, Mike Mills, Peter Buck e Bill Berry, il classico disco da dentro o fuori. Il già sperimentato mandolino di Buck che diventa icona e standard, l’eleganza della sezione d’archi a sfrondare le ruvidità da college band, un suono più morbido di quanto mai inciso sotto la I.R.S. Records e quel testo così fraintendibile, così interpretabile da finire per sedurre chiunque. Una vera e propria bomba che esplode nelle mani di una band nata, cresciuta ed evolutasi fino a quel momento senza preoccuparsi troppo di vendite e classifiche.

Un disco da dentro o fuori, dicevamo. Il contratto milionario firmato col colosso Warner qualche anno prima aveva portato il solo “Green”, arrivato nell’88 a completare un tour de force che aveva visto gli R.E.M. pubblicare un lavoro all’anno dal 1982 in poi. Ed è proprio per questo che “Green” risentiva ancora degli strascichi di “Document” (1987) mentre la Warner, comunque già soddisfatta dalla resa del primogenito, s’aspettava che la band potesse finalmente fare un salto definitivo dall’altro lato della barricata, quello del rock mainstream. Per la prima volta Stipe e gli altri si prendono molto più tempo per scrivere un disco, a scapito dell’urgenza espressiva dei loro anni Ottanta ma col contraltare di un’impagabile ricerca del giusto compromesso tra le loro radici, il futuro verso cui si stavano proiettando e le aspettative dell’etichetta.

Out Of Time coglie nel segno in maniera semplicemente perfetta. Gli R.E.M. non rinunciano alla loro vena politica (a cominciare dal packaging del disco, che in una particolare stampa longbox allegava anche una cartolina da spedire per supportare una petizione contro la censura della musica), riprendono da dove avevano lasciato con “It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine)” e “Orange Crush” e affidano l’incipit dell’album agli esplicativi versi iniziali di Radio Song: “The World is collapsing / Around our ears / I turned up the radio / But I can’t hear it”. Il mondo sta collassando, la Guerra del Golfo va a concludersi proprio mentre la band è in procinto di licenziare “Out Of Time” e tanti nodi della società stanno venendo al pettine, tra eventi più o meno epocali come quelli che pare debbano affrontare la madre e il figlio protagonisti di Belong.

Ma è l’amore il vero protagonista a sorpresa di “Out Of Time”, a partire da quello dell’equivoca Losing My Religion, additata di essere un inno all’ateismo anche a causa del suo videoclip. Il pezzo parla invece della stanchezza procurata da una relazione che non va come dovrebbe, mentre il titolo altro non è se non un’espressione idiomatica del Sud degli Stati Uniti (e quindi anche di Athens, Georgia) per intendere qualcosa come “perdere la pazienza”, “perdere il senno” (“That’s me in the corner / That’s me in the spotlight / Losing my religion / Trying to keep up with you / And I don’t know if I can do it”). Meno criptica ma tremendamente più triste e amara è invece Half A World Away, col mandolino ipnotico di Buck che sottolinea le distanze − addirittura mezzo mondo − che Stipe frappone fra sé e un’altra persona (“My hand is tired my heart aches / I’m half a world away here”). Poi Low, nera come la pece, altra ammissione di Stipe sul non aver ancora imparato a gestire certe situazioni (“I skipped the part about love / It seems so silly and low / I skipped the part about love / It seems so shallow and low / Low low low / Low low low”). E ancora lo sfinimento procurato dal rimpianto per la rinuncia a una relazione di Country Feedback, acuito dalla notturna impostazione country della chitarra di Buck (“You wear me out / We’ve been through fake-a-breakdown / Self hurt”). Infine anche un amore diverso in Me In Honey, quello di un padre per un figlio in arrivo.

In mezzo a tanti echi e suggestioni lontane (come nella quasi-strumentale Endgame), gli R.E.M. non mancano di inserire un paio di episodi più scanzonati: Near Wild Heaven (cantata da Mills così come Texarkana, entrambe con Stipe ai cori), che nasconde comunque una spessa coltre di disillusione dietro la patina luccicante della facciata, e soprattutto Shiny Happy People, brano con davvero pochi (per non dire nessuno) significati nascosti su cui indagare, un singolo perfetto (sebbene “banale”, come spesso lasciato intendere dagli stessi membri della band) supportato dalla collaborazione con la concittadina Kate Pierson dei B-52’s (che compare anche in Me In Honey).

Le diciotto milioni di copie vendute in tutto il mondo e i tre Grammy Awards conquistati, oltre a suscitare l’entusiasmo dei vertici della Warner, faranno di “Out Of Time” il best seller della produzione di una band uscita a testa alta da una prova del nove complicatissima: diventare mainstream senza sputtanarsi. Una band di ormai trentenni che da quel momento in poi iniziava davvero a competere allo stesso livello − e frequentemente anche più in alto − dei nomi più importanti e blasonati della scena rock. Un disco sfacciatamente pop trattato e lavorato come un album alternative, senza un vero tour a supporto, con interviste e ospitate ridotte al lumicino (anche dopo i Grammy). L’album che lanciò definitivamente gli R.E.M. nell’Olimpo del rock americano e quindi planetario.

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