I Beatles erano finiti. Lo sapevano tutti, anche se nessuno osava dirlo chiaramente. E lo sapeva benissimo anche John, che di quel dualismo con Paul ne aveva fin sopra i capelli, stanchi tutti di dover pesare col bilancino di precisione ogni singola parola per prendere ogni singola decisione. Solo che per porre fine a una storia incredibile come quella dei Fab Four, John avrebbe voluto che le cose andassero in un determinato modo, ponderate, con tempi e modi condivisi. Il fatto che invece era stato Paul il primo che, praticamente a senso unico, aveva scritto la parola fine sui quattro di Liverpool, non gli era andato giù neanche un po’. Accadde il 10 Aprile del ’70 (storicamente è collocata proprio in quel momento, col contestuale annuncio dell’album solista di McCartney, la fine dei Beatles) e per John Lennon fu la classica goccia che fece traboccare un vaso che ormai da anni rischiava di tracimare, non soltanto per le questioni lavorative legate ai Beatles e ai loro equilibri interni.
I mesi seguenti, mentre il singolo Instant Karma! scala le classifiche, John li passa insieme alla moglie Yoko Ono in frequente compagnia dello psichiatra americano Arthur Janov, nel tentativo di sputare fuori quel “primal scream” teorizzato dallo studioso, un modo per affrontare a ritroso i traumi della vita regredendo fino alla nascita. Di traumi John ne aveva avuti parecchi, su tutti quello (già affrontato anche in passato, ma con effetti meno catartici) della presenza/assenza e poi scomparsa della madre. Parte da lì John, e tra il Settembre e l’Ottobre del 1970 si chiude ancora una volta negli studi di Abbey Road per lavorare a quello che sarebbe stato il suo primo viaggio solista post-Beatles, una risposta a tutto, ai suoi ex compagni, alle pressioni di stampa, manager e casa discografica, ma soprattutto a quelle paure che lo attanagliavano da tutta la vita e che solo con Yoko al suo fianco era riuscito in qualche modo ad affrontare. Nasce così John Lennon/Plastic Ono Band, lavoro “gemello” di quel “Yoko Ono/Plastic Ono Band” con cui la moglie esordisce lo stesso giorno (stesso titolo e praticamente stessa copertina, con la sola inversione delle posizioni in cui sono raffigurati i due).
Le campane funeree con cui si aprono il disco e Mother dicono tutto. Sono la fine, il commiato, il congedo, la morte di qualcuno/qualcosa. Lennon urla in modo straziante “Mama don’t go, daddy come home”, a metà strada tra il risentimento per quei genitori che s’erano separati poco dopo la sua nascita, affidandolo alle cure di una zia, e l’ancestrale e persistente bisogno di quelle due figure nella sua vita. Figura, quella della madre Julia, che per un breve periodo era rientrata nella sua vita salvo poi scomparire di nuovo, a causa di un tragico incidente stradale, quando John aveva diciotto anni. E alla madre è dedicato non sono l’inizio ma anche la chiusura del disco, affidata alla registrazione casalinga dell’esplicito e secco dolore di My Mummy’s Dead.
Nel mezzo, Lennon trova spazio per una delle sue arringhe socialiste, con quella Working Class Hero che paga pegno alla conoscenza e reciproca influenza di Bob Dylan, palesa in Isolation il suo senso di straniamento rispetto al mondo che lo circonda, si rifà sotto con il rock’n’roll già provato con i Beatles in I Found Out e Remember e, soprattutto, chiude ogni cerchio possibile con quel vero e proprio manifesto del suo pensiero che è God. Qui John esplicita il concetto di Dio come unità di misura del dolore, rinnega tutto e tutti, Gesù e Buddha, Kennedy e Hitler, la magia, lo yoga e icone moderne come Elvis e Bob Dylan. Ma su tutto, mette anche la sua personale pietra tombale sui Beatles: “I don’t believe in Beatles”, e poi silenzio. Crede solo in se stesso e in Yoko, si reimpossessa della sua persona e taglia i ponti con quel passato ingombrante. “The dream is over, what can I say?”, dice, e poi chiude con un invito ai fan dei Beatles, al pubblico, a tutti: “And so dear friends, you just have to carry on. The dream is over”. È finito tutto, fatevene una ragione.
Quel sogno John Lennon lo esorcizza proprio con “Plastic Ono Band”, gli sferra un colpo mortale e lo traspone rinfrancato nella sua nuova realtà di ogni giorno, quella fatta di impegno politico e totale libertà, di amore (c’è Love che non è difficile immaginare dedicata a Yoko), ricerca di pace e serenità. Un sogno che di lì a poco avrebbe trovato la sua definitiva mutazione con l’eterea e anthemica visione di “Imagine”.