Parlare o forse peggio scrivere di The Wall può rivelarsi qualcosa di oggettivamente fastidioso, più per chi legge che per chi se ne occupa. “Parlare di musica è come danzare di architettura”, citazione abusata, falsa o inutile, di sicuro non del tutto vera se si pensa che tre dei quattro Pink Floyd erano proprio studenti di architettura. Allora, forse, provare a parlare di quell’ultimo atto dalla portata mastodontica che fu “The Wall” forse non sembra più un’idea così assurda.
Alla fine degli anni ‘70 i Pink Floyd hanno già alle spalle, in soli dieci anni di carriera, “The Dark Side Of The Moon” (1973), “Wish You Were Here” (1975), “Animals” (1977) e Syd Barrett, quattro fardelli di non poco conto, chi per un motivo e chi per un altro. Tra il 1977 e il 1978 i guadagni da “The Dark Side of The Moon” e “Wish You Were Here” sono in costante aumento ma, a causa di alcuni investimenti avventati da parte dei quattro, i Pink Floyd sono sottoposti a un’esposizione fiscale gigantesca. In più, le carriere da solista di Gilmour e Wright e le produzioni di Mason rappresentano un’arma di distrazione dagli impegni creativi con i Floyd. Ma Waters non si distrae, ha troppa rabbia dentro, non ha tempo per divagare. È uno sputo puntato dritto con una precisione marziale verso un fan, reo di aver richiesto “Careful With That Axe” alla fine del tour di Animals, ad accendere la sua scintilla creativa, a Montreal, il 6 Luglio del 1977. Un gesto fascista, così fu definito dallo stesso autore, tale da rappresentare il momento apicale dell’alienazione del bassista inglese.
Waters non si accetta, si analizza, si erge a spietato organo autogiudicante e scava a ritroso nella sua mente, ricostruisce ogni singolo tassello che possa spiegare prima di tutto a se stesso come sia arrivato fino a lì. Per farlo inventa Pink, bambino, studente, adulto, rockstar, distante, alienato, colpevole, condannato. A meno di un anno dall’uscita del disco (doppio, sempre meglio ricordarlo) Waters presenta al resto del gruppo l’idea, l’album, una demo quasi completa, la cui perfezione pressoché intoccabile impedirà a Mason e Gilmour, anche se non del tutto, qualsiasi impeto creativo. Il primo pezzo di muro non è difficile, Waters lo individua subito: è il risentimento per la morte di suo padre, un ricordo/non ricordo irrimediabilmente cementificato dentro la rabbia nei confronti di un corpo a tutt’oggi sepolto chissà dove, senza nome, mescolato con i nuovi scomparsi, morti invisibili e mai riconosciuti dai familiari: Eric Fletcher Waters, sottotenente britannico, morì ad Anzio durante la Seconda Guerra Mondiale, il 18 Febbraio 1944, cinque mesi dopo la nascita di Roger.
“The Wall”, l’idea, l’album, il film, è l’ISO di Waters, la sua identità sonora, il riassunto dei suoi archetipi acustici, a partire dal suo distacco dal pubblico al suo vissuto intra-uterino: i bombardieri della Guerra, la nascita, l’assenza del padre (In The Flesh?, The Thin Ice), l’adolescenza e un sistema di istruzione alienante (Another Brick In The Wall, Pt. 1, The Happiest Days Of Our Life, Another Brick In The Wall, Pt. 2), il rapporto con una madre soffocante per indole o per necessità (Mother), un faticoso passaggio all’età adulta (Goodbye Blue Sky), il successo, il disordine, gli eccessi (Young Lust), i tradimenti della moglie, ennesimo tentativo di normalità andato a puttane (One Of My Turns, Don’t Leave Me Now), la richiesta di aiuto (Hey You, Is There Anybody Out There?), le allucinazioni da stupefacenti (Confortably Numb), il delirio di onnipotenza (In The Flesh, Run Like Hell, Waiting For The Worms), il risveglio e la volontà di fermare tutto (Stop), il processo (The Trial), il crollo del muro (Outside The Wall).
Difficile credere che esistessero orecchie rimaste vergini a “The Dark Side Of The Moon”, per età, geografia, preconcetti o per caso ma i ventiquattro mattoni tra il “…we came in” di In The Flesh? e il “isn’t this were…” di Outside The Wall misero in moto uno show business spropositato, ponendo infinite domande sulla simbologia chiusa dentro i martelli disegnati da Gerald Scarfe, facendo esordire Bob Geldof nel ruolo di Pink all’interno della pellicola diretta da Alan Parker e rimpinguando le tasche di attori le cui voci erano state registrate cambiando canali tv a casaccio durante le registrazioni.
Nonostante l’esclusione di Roger Waters e dei Pink Floyd tutti di alcun collegamento diretto tra l’album e il muro berlinese, la simbologia in quegli anni è troppo forte per frenare il messaggio e “The Wall” raggiunge picchi di vendite sia nella Germania Est che in quella Ovest, proprio in quel drammatico periodo storico. Il muro di Pink si sfaldò in conclusione di ognuna delle trentuno tappe del tour dal 7 Febbraio 1980 al 17 Giugno 1981 e insieme a lui anche i Pink Floyd, i cui rapporti professionali e personali sarebbero franati nel peggiore dei modi. Il licenziamento in tronco di Wright, che partecipò solo in qualità di turnista alla tournée e l’esclusione di Gilmour dal processo creativo del disco, al quale riuscì lo stesso di regalare un trittico fondamentale (Young Lust, Confortably Numb, Run Like Hell), aumentarono a dismisura una tensione che non consentiva una prosecuzione anche solo temporanea del rapporto.
Ma il muro berlinese no, era ancora lì, resisteva a tutto, restando vergognosamente in piedi per altri sette anni. Quando finalmente crollò, il 9 Novembre 1989, Roger Waters tenne fede alla promessa fatta cinque mesi prima: avrebbe rimesso in scena “The Wall” solo quando il muro di Berlino fosse caduto e così accadde, il 21 Luglio 1990, a Potsdamer Platz, insieme, tra gli altri, a The Band, Scorpions, Cindy Lauper, Joni Mitchel, Van Morrison. Sono trascorsi quarant’anni dall’uscita del disco e i Pink Floyd non hanno più visto la luce, a eccezione di quel 2 Luglio 2005 in cui il basso di Waters, la chitarra di Gilmour, la batteria di Mason e le tastiere di Wright si ritrovarono di nuovo insieme, un’ultima volta qualche anno prima della morte di Wright.
Oggi “The Wall” si presenta al pubblico ancora così: una persona, un impeto di disgusto, la fine, l’inizio, una malattia infantile, un esorcismo, una fortezza vuota, un mosaico sonoro in costante movimento. Glaciale e irruente, talmente iconico da essere entrato a far parte della cultura pop (colpa principalmente di Another Brick In The Wall, Pt. 2), non è un acquario semplice in cui sguazzare, non lo era alla fine dei ‘70 e non lo sarà mai. Ciononostante, da quarant’anni è raggiungibile da milioni di persone, come un ciclo costante e infinito tra disgusto, alienazione e liberazione, che ci asseconda mentre accumuliamo mattoni e alziamo muri, li abbattiamo e torniamo a ricostruirli.