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Mad For Fucking Years: i Pink Floyd e il lato oscuro della Luna

Quale introduzione per un disco come questo? Ricordare il vil denaro e la fredda statistica di 45 milioni di copie vendute, quando “copie vendute” voleva dire che uno stronzo andava in un negozio di dischi con moneta sonante a comprare un artefatto in vinile o plastica da portare a casa e guardare, ascoltare, toccare, annusare e non “guarda che eccellente bot per gonfiare il numero di streaming siamo riusciti a fare”? No, che diavolo, in fondo a chi gliene fotte? Tra i tour più visti di sempre ci sono U2, Ed Sheeran e Coldplay, ma non starei qui a vantarmene troppo; o i numeri ci dicono qualcosa di importante sempre, e quindi i BTS sono fondamentali per la storia della musica, oppure mai: non possiamo tirarli fuori quando il disco ci piace o significa qualcosa.

Allora potremmo parlare dello straordinario lavoro tecnico di Alan Parsons (ingegnere del suono in questo caso), sminuito da Gilmour e Waters in un raro momento di comunità di intenti, ma di fortissimo impatto sulla storia della musica; o di Clare Torry, portata in studio proprio da Parsons, che per la sua voce in The Great Gig In The Sky ricevette la ricca cifra di £30, uscendo dallo studio con l’impressione che la traccia registrata, poi diventata uno dei pezzi più conosciuti e criticamente acclamati di sempre, non fosse neanche piaciuta più di tanto ai Pink Floyd, britannicamente freddi nel congedarla. Parliamo dell’assurda teoria per cui sarebbe stato concepito per essere allineato al Mago di Oz, o ancora di altri aneddoti più o meno ameni, ché tanto a parlare di un album così si perde solo tempo: chi lo conosce non ha bisogno di sentirselo descritto da un fesso su un sito di musica, chi non lo conosce ha bisogno di andarlo ad ascoltare senza neanche finire di leggere questo mucchio di stronzate in prosa.

La verità è che per una narrazione della storia di The Dark Side Of The Moon, uno dei capitoli forse meno drammatici della telenovela del Fluido Rosa che dura ormai da quasi sessant’anni, fareste meglio a rivolgervi a una delle tante biografie della band o dei protagonisti, ricche di dettagli sulle interazioni complicatissime tra Mason, Wright, Gilmour e Waters, qui non ancora nel ruolo di dittatore e lider maximo, sui vari collegamenti musicali tra i brani poi diventati leggendari e assolutamente inevitabili in qualunque stazione dedicata al cosiddetto classic rock negli Stati Uniti ma non solo, e i loro antecedenti realizzati nella fase che va dall’abbandono della band da parte di Syd Barrett fino al disco precedente, e infine sull’analisi dei meravigliosi testi di Waters, qui non ancora dittatore abbiamo detto, ma che grazie alla qualità delle riflessioni qui portate sull’essere umano, sulla vita, sulla follia – la Luna del titolo, infatti, è una sorta di arcano gioco di parole volto a far riferimento a “lunacy”, termine inglese che significa, per l’appunto, “follia” – pose le basi per rendere la band un outlet musicale per le sue riflessioni che, ammetteranno anche i suoi più arditi detrattori, ci hanno regalato alcuni dei più grandi capolavori della storia del rock.

Cosa dire allora, di innovativo? Volete davvero che vi diciamo quanto è perfetta Us And Them? Volete che parliamo dei registratori di cassa in tempo dispari che aprono Money? No, davvero, lasciamo perdere. Non è un discorso da affrontare in poche pagine o in poco tempo. Questo disco incredibile è uno dei punti più alti nella storia del rock, in qualunque senso, persino in quella semplicissima, geniale, iconica copertina che Storm Thorgerson realizzò (“make it simple and bold”, gli aveva chiesto Richard Wright), e ancora oggi suona estremamente moderno, fresco anche se riascoltato centinaia di volte ovunque, misterioso e ricco di frasi che colgono l’essenza dell’essere umani forse meglio di tanti poeti, scrittori, letterati, medici e vagabondi.

Si sente spesso dire che il rock sia morto, che non parla più ai giovani, eccetera. Ci sono vari gradi di verità nascosti in quelle affermazioni, alle quali si risponde generalmente citando qualche bell’album rock che continua a sbucare fuori nel florido underground ormai mondiale e alla portata di tutti (ma forse, con tutte le uscite che ci sono quotidianamente, alla portata dei pochi fortunati e abili nella scrematura di quanto invece andrebbe lasciato nell’immediato dimenticatoio, gettato nell’oblio della mediocrità). Ed è una risposta con molta dignità: il rock continua ad esistere e dire qualcosa. Ma sedersi e mettere sul giradischi questo meraviglioso album, oggi 50enne, rivela un’impietosa verità: il paragone con questo passato è molto duro. Duro perché l’ambizione non è più dire qualcosa, osare, ambire al cielo, all’Olimpo, agli dei, ad essere uno di loro. L’ambizione, per quanto suoni da boomer un’analisi simile, è un effimero ritorno economico con il minor sacrificio possibile, perché tanto l’obiettivo non è l’Olimpo ma qualche ospitata in qualche trasmissione figa, qualche paio di milioni di follower sui social, qualche milioncino sul conto.

Se quindi c’è qualcosa che un musicista può imparare da questo disco è l’ambire al divino, all’eterno, non al nulla vestito a festa. E quel divino che oggi riascoltiamo, cinquant’anni dopo, con la stessa freschezza di allora, difficilmente troverà epigoni fra cinquant’anni se il rock, che poi sono i ragazzi che imbracciano una cazzo di chitarra, non insegna ai suoi figli a ritrovare quel bisogno e soddisfarlo, l’ambizione che Waters, Gilmour, Wright e Mason hanno messo in “The Dark Side Of The Moon”, costruito tassello dopo tassello con lacrime, sangue, tentativi, amore, odio, furia, riflessione e impulso.

“And after all we’re only ordinary men”, diceva Waters (con la voce di Gilmour) in quello che è forse il pezzo più importante dell’album. Ed era vero. E lo dimostrano anche ora, a litigare come bambinetti al parco, a tirarsi il fango in faccia e a portar via il pallone, nonostante sia più vicina l’età della dentiera che quella delle partite con gli zaini come pali. Ma questo è il potere incredibile che ha la musica: questi anziani signori così presi da beghe e ritorsioni, ogni volta che la puntina tocca il solco del vinile superano la miseria eterna della condizione umana che tanto assomiglia alla follia e si elevano sul monte Olimpo, trascinandoci per mano.

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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