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Mellon Collie: infinita tristezza e grandiosa ambizione degli Smashing Pumpkins

È difficile raccontare venticinque anni dopo cosa significò la perdita di Kurt Donald Cobain, quel giorno di Aprile del 1994. L’ennesimo messia la cui anima viene sbriciolata nell’eternità, l’ennesimo idolo che non voleva essere un idolo per la generazione che più di tutte, dal dopoguerra, aveva bisogno di santi e di eroi, cavalieri senza macchia che vegliassero sull’apatico terrore del futuro con il quale la famosa Generazione X ha fatto duramente i conti, Don Chisciotte con la chitarra elettrica pronti ad affrontare i mulini a vento di una società sempre più alienante. Quel giorno un suo rivale (anche in amore, oltre che in musica) a Chicago potrebbe aver pensato: “Quell’idolo voglio essere io”.

Le ambizioni di Corgan, culminate nell’ottimo “Siamese Dream” (1993), erano risibili per i figli di Seattle che portavano avanti con il grunge l’etica punk e, del resto, musicalmente Corgan voleva portare l’alternative rock agli eccessi che, quando si chiamavano progressive rock, proprio il punk aveva spazzato via. Ma l’era del grunge era certamente alle spalle e le ambizioni di Corgan non accennavano a scemare. Le disfunzionali sessioni di registrazione di “Siamese Dream” devono essere un ricordo, il produttore Butch Vig (responsabile, oltre che del citato album degli Smashing Pumpkins, di “Nevermind”) anche: dietro i mixer ci vanno Flood e Alan Moulder. D’arcy Wretzky, James Iha e Jimmy Chamberlin, le tre zucche rimanenti, hanno un ruolo ben più rilevante di quello avuto in passato in studio di registrazione, perché qui, cari miei, si va a dominare il mondo.

Il risultato è Mellon Collie And The Infinite Sadness, un mastodontico capolavoro di oltre due ore che produce non solo cinque singoli leggendari quanto eterogenei (le feroci Bullet With Butterfly Wings e Zero, la new wave di 1979, il pop rock sinfonico di Tonight, Tonight e il dolce pop pianistico velato di country di Thirty-Three), ma anche un unitario repertorio di canzoni velatamente unite dal filo del concept di malinconia e tristezza, senza mai cali qualitativi e perfettamente bilanciate tra loro, nonostante spesso estremamente diverse: se X.Y.U. e Tales Of A Scorched Earth sono forse i pezzi più pesanti della loro carriera, Cupid De Locke è senza dubbio il loro più zuccheroso. Ma non è solo Corgan a essere in una forma incredibile: Jimmy Chamberlin tiene in piedi la struttura heavy dell’album con una performance al limite della perfezione, e basterebbe ascoltare la sola An Ode To No One per rendersene conto; Iha e D’arcy, anche loro in stato di grazia dopo essere quasi stati esclusi dalle session in “Siamese Dream” a causa di problemi relativi alla dissoluzione della loro relazione, contribuiscono in maniera rilevante agli arrangiamenti, facendo dei Pumpkins, per la prima e ultima volta, quasi una democrazia o meglio una monarchia costituzionale. 

Corgan ci era riuscito: convincere la Virgin a pubblicare il doppio album (lungo tre LP, per giunta) integro mentre giganti commerciali come i Guns N’ Roses e Bruce Springsteen erano stati costretti a vendere i due CD separatamente con rispettivamente “Use Your Illusion” e “Human Touch”/“Lucky Town”; riuscito a tenere insieme la famiglia disfunzionale delle zucche e a guidarla verso il risultato; riuscito, in definitiva, a raccogliere quello scettro lasciato cadere dal piccolo angelo biondo eroinomane di Aberdeen, WA, riluttante voce di una generazione. “Mellon Collie”, infatti, non è solo un successo artistico ma, contro ogni previsione, un enorme successo di pubblico: disco di platino nel Regno Unito, disco di diamante in patria, primo in classifica (nonostante il doppio CD costasse ai tempi una cifra rilevante) in diverse parti del mondo e con i singoli in costante heavy rotation su MTV, quando ancora la televisione della Viacom significava qualcosa per la musica. 

Ma la storia qui prende la più classica delle svolte, quasi scritta come fosse un film: Corgan ebbro di potere che dall’alto del proprio trono dileggia i propri contemporanei perché troppo poco inclini a spingere, a osare, a rischiare – già non particolarmente simpatico ai suddetti contemporanei, diventa il vero e proprio villain del rock anni ’90. Chamberlin, invece, va più sul tradizionale: già dipendente dall’eroina durante le session di registrazione di “Siamese Dream”, durante le quali spariva per giorni, subisce l’estrema fatica dell’interminabile tour di supporto a “Mellon Collie” e, per di più, perde il padre, discendendo in una spirale di dipendenza che quasi gli costerà la vita. Prima a Bangkok, poi a Lisbona, dove Jimmy e il tastierista Jonathan Melvoin furono trovati svenuti fuori da un hotel e furono resuscitati con una siringa di adrenalina al cuore, in pieno stile “Pulp Fiction”, e infine a New York, dove però Melvoin perde la vita con un’overdose della varietà di eroina chiamata RedRum, accanto all’amico Jimmy, che, disperato, realizza la fine della corsa. La famiglia del tastierista (Jonathan è infatti figlio di Mike Melvoin, pianista jazz che ha suonato con Sinatra, con i Beach Boys e anche con il nostro Lucio Battisti e fratello di Wendy, chitarrista e vocalist con Prince) lamenta di non essere mai stata informata dell’incidente di Lisbona e Billy dice di sentirsi trattato dai giornalisti “come OJ Simpson”. 

L’impero sembra giunto al termine, con Chamberlin licenziato e D’arcy coinvolta nei propri problemi con sostanze illecite; ma per un momento, per un piccolo glorioso momento le zucche erano sul tetto del mondo del rock, e questa straordinaria testimonianza rimarrà come straordinario monumento a quella grandiosa ambizione, quella musica come ricordo di quando Corgan e i suoi usarono la determinazione e la visione musicale per conquistare una generazione. “Forever frozen, forever beautiful”.

Reverendo Dudeista, collezionista ossessivo compulsivo, avvocato fallito, musicista fallito. Ha vissuto cento vite, nessuna delle quali interessante. Scrive per Il Cibicida da un numero imprecisato di anni che sarebbe precisato se solo sapesse contare.

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