1 Marzo 1995: mentre è impegnato in concerto con la band a Losanna, in Svizzera, Bill Berry viene colpito da un aneurisma cerebrale. Ricoverato d’urgenza, il batterista recupera in tempi record e nonostante l’enorme spavento si aggrega nuovamente agli R.E.M. per la tranche conclusiva del mastodontico “Monster Tour”, che li impegnava ormai da tantissimi mesi. L’evento, che all’inizio sembrava essere stato superato agevolmente, in realtà avrà delle ripercussioni sulla voglia − ma anche sull’opportunità di farlo − dello stesso Berry di mantenere il suo posto dietro le pelli: troppo lo stress della vita on the road, specie adesso che il suo corpo gli aveva evidentemente chiesto di fermarsi; troppi gli anni in cui si era ritrovato a girare il mondo in lungo e in largo, condizione non più compatibile con la sua salute. Così nell’Ottobre del 1997, dopo aver portato a termine anche le registrazioni di “New Adventures In Hi-Fi” (1996), arriva la decisione definitiva: Bill lascia gli R.E.M. dopo diciassette anni per ritirarsi a vita privata.
Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills si trovano dunque difronte a una scelta complicatissima da compiere: avrebbero potuto cercare un sostituto dell’amico; avrebbero potuto mettere la parola fine alla loro esperienza artistica congiunta; oppure avrebbero giocoforza dovuto reinventarsi. Scartate la prima e la seconda ipotesi, i tre decidono di proseguire sotto la stessa ragione sociale, iniziando così a lavorare a un nuovo album, affidandosi però a soluzioni diverse come evidente segno di discontinuità: il risultato è Up, primo lavoro di quello che sarebbe stato il nuovo corso della band. Per le registrazioni del disco Stipe e soci s’affidano a dei turnisti alla batteria, tra cui Barrett Martin (ex Screaming Trees e Mad Season) e Joey Waronker, ma è massiccio soprattutto l’uso della drum machine, un modo palese per sottolineare l’assenza dell’amico di una vita e segnale di uno stacco netto rispetto a due album marcatamente rock come i precedenti “Monster” e “New Adventures In Hi-Fi”, oltre che al resto della discografia della band.
L’elettronica è indubbiamente l’elemento distintivo di “Up”, a partire dalle pulsazioni industriali dell’iniziale Airportman, passando poi per Hope (per la quale verrà inserito tra i crediti anche Leonard Cohen, vista la somiglianza della melodia del pezzo a quella della sua “Suzanne”), Walk Unafraid con il suo avvolgente climax sintetico o la conclusiva Falls To Climb in cui disturbi digitali s’innestano su chitarra acustica e pianoforte. Gli R.E.M. non dimenticano chi sono e, pur con inserti elettronici sempre sullo sfondo, partoriscono una manciata di ballate costruite sul loro riconoscibilissimo DNA, vedi la delicata Suspicion che vanta uno dei testi più suggestivi mai scritti da Stipe, a cavallo tra sogno e razionalità, At My Most Beautiful col piano e i consueti cori di Mike Mills in bella mostra mentre Stipe racconta la purezza di un amore, oppure Daysleeper, la traccia più vicina a ciò che la band era stata fino a quel momento, scelta probabilmente non a caso come primo singolo estratto dal disco.
Rispetto ai fasti di inizio/metà anni Novanta e nonostante almeno una manciata di pezzi dall’indiscutibile valore, “Up” segnerà il primo evidente ribasso nelle quotazioni degli band, visto il modo in cui una larga fetta del pubblico degli R.E.M. si dimostrerà freddo nei confronti del disco (salvo poi una futura rivalutazione del lavoro svolto) e visto anche il responso della critica, di certo non particolarmente comprensiva nei confronti della strada scelta da Stipe, Mills e Buck per andare avanti. Ma “Up” avrà anche il merito di tenere in piedi una baracca che era stata sul punto di collassare, sottolineando ancora una volta come gli R.E.M. fossero lì per fare la loro musica a modo loro, senza necessariamente andare a rifugiarsi in una comfort zone che andava per forza di cose scardinata. Non era ancora il momento giusto per farsi da parte.