C’è questa foto di PJ Harvey, scattata dall’amica Maria Mochnacz nel bagno del suo appartamento, che ritrae Polly Jean nuda, capelli bagnati in movimento a formare una sorta di scultura cristallizzata nello scatto e uno sguardo che è un tutto un programma. Uno sguardo che trasuda disagio, sensualità a palate e che ti entra dentro come una lama, occhi spenti di una disarmante profondità. E non è un caso che quello scatto sia finito, senza alcuna modifica rispetto all’originale, sulla copertina di Rid Of Me, il disco che il 4 Maggio del 1993 consegnò nelle mani di PJ una carriera che di lì in poi avrebbe visto picchi di impressionante qualità e che di quello sguardo è fedele rappresentazione visiva.
Appena un anno prima PJ aveva esordito con “Dry”, un lavoro dal successo inatteso valsole le attenzioni della Island Records, che la mise sotto contratto spingendo per avere un nuovo album nel più breve tempo possibile. PJ, che fin dall’esordio aveva gettato più lo sguardo al di là dell’Atlantico che alla natia Inghilterra, volle a tutti i costi che a produrre il suo nuovo disco fosse Steve Albini, già deus ex machina del mondo indipendente per il suo saper cogliere l’essenza primordiale delle band cui prestava i propri servigi di ingegnere del suono, trasponendo su nastro meglio di chiunque altro la carica live dei musicisti in studio. PJ sapeva bene che disco stava scrivendo e Albini non fece altro che far quadrare il tutto nel miglior modo possibile.
“Rid Of Me” è l’album di una ventitreenne destabilizzata dalla propria urgenza espressiva, da relazioni tossiche in cui oscilla pericolosamente tra il ruolo di vittima e quello di carnefice, da preoccupanti saliscendi emotivi e da una insaziabile e carnale sessualità. E i testi scritti da Polly Jean lasciano davvero poco spazio alle interpretazioni, visto il modo in cui la title track (“Lick my legs, I’m on fire / Lick my legs, of desire”) o Rub ‘Til It Bleeds (“Rest your head on me / I’ll smooth it nicely / Rub it better, ‘til it bleeds”) mettono in chiaro ciò che le passa per la testa, testi in cui si barcamena tra il desidero irrefrenabile e la voglia di vendetta per una insoddisfazione sempre latente, fino a ipotizzare persino l’aggressione fisica, come in Legs (“No other way cut off your legs oh… / Oh lover boy I’ll feed the head… / And I, I might as well be dead / But I could kill you instead”).
Non ha filtri PJ, ci sono il sangue e il sanguinamento che ritornano spesso nell’album (anche in Me-Jane e Missed, in cui compaiono rispettivamente i versi “Move it over Tarzan can’t you see I’m bleeding” e “And let it bleed”), c’è l’impotenza della sottomissione che fa da contraltare alla sfacciata irruenza di altri passaggi del disco (come in Hook, “Good Lord, he hooked me / Fish hook and line / I’m hooked”), c’è la mascolinità tossica che s’intreccia inscindibilmente a un femminismo che si rivela non essere tale (come nell’incisivo singolo Man-Size, “Man-sized no need to shout / Can you hear can you hear me now / I’m man-sized / Man-sized”). Ed è un mondo confuso quello della Polly Jane di “Rid Of Me”, una ragazza in lotta con se stessa prima che col mondo fuori.
Musicalmente il disco continua sulla scia di “Dry”, una scia fatta di elucubrazioni punk e garage (Snake ad esempio è un gancio piuttosto chiaro all’alternative rock statunitense del periodo), di rallentamenti blueseggiati e di un approccio vocale che vede PJ urlare e sussurrare anche all’interno dello stesso pezzo, a ulteriore testimonianza della costante e ossessiva dicotomia che serpeggia in tutto l’album e nella psiche della sua autrice. “Rid Of Me” sarà anche l’ultimo lavoro inciso da PJ Harvey come frontwoman di una band (qui insieme a lei ci sono Rob Ellis e Steve Vaughan), perché di lì in poi ci sarà solo e soltanto PJ, accompagnata di volta in volta da una pletora di collaboratori sempre più consistente, ma solo e soltanto PJ: la ragazza simbolo e modello degli anni ’90.