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Sigur Rós: due parentesi per chiudere un abbraccio

È la fine del secolo scorso e la musica rock, più o meno consapevolmente, si prepara a un movimento tellurico gigantesco, pronto a scuotere più di un’area specifica. Gli strascichi del grunge sono ancora forti, ma i Radiohead hanno pubblicato “OK Computer”, i Neutral Milk Hotel “In The Aeroplane Over The Sea”, gli American Football il loro indimenticato self titled, i Built To Spill “Keep It Like A Secret” e “Perfect From Now On”, gli Spiritualized “Ladies And Gentlemen We’re Floating In Space”. Il post rock vive una stagione di enorme spolvero con le “Ocean Songs” dei Dirty Three, i “Four Great Points” dei June Of 44, “TNT” dei Tortoise, l’entrata a gamba testa dei Mogwai (“Young Team” e “Come On Die Young”), l’apparizione dei Godspeed You! Black Emperor. Contestualmente, i Massive Attack sputano fuori “Mezzanine”; Björk vola alle stelle con “Homogenic”; i Nine Inch Nails cambiano rotta con “The Fragile”. Philip Glass e Arvö Part sconquassano il mondo del minimalismo con “Koyanisquaatsi” e “Tabula Rasa”. E in quel momento lì, in mezzo a tale tempesta, arriva un oggetto chiamato “Ágætis Byrjun”.

Tutti lo amano, nessuno riesce a inquadrarlo. Le prime, timide associazioni sono di natura squisitamente geografica e coinvolgono la già citata regina d’Islanda. Di una cosa, critica e pubblico sono sicuri: lissù, con quel freddo, in quei paesaggi così eterei ma così ostili, è naturale che si diventi un po’ così meravigliosamente folli. Questi Sigur Rós, addirittura, parlano una lingua inventata e la battezzano vonlenska, hopelandic: lingua della speranza. Il più anziano è il frontman. Si fa chiamare Jónsi, ha ventiquattro anni, suona la chitarra elettrica con l’archetto di violoncello e canta in falsetto come dovesse accompagnarti dinanzi a San Pietro. Il risultato, però, è fuori dalla grazia di Dio. L’album ridefinisce completamente il concetto di dreamy e fa invecchiare in un sol colpo shoegaze, slocore, post rock, ambient e molto altro ancora. Prendendo in prestito un capolavoro di Louise Bourgeois, suona come il ricordo di qualcosa che non è mai accaduto. È bellissimo.

Per questo, tre anni dopo, quando sullo scivolare del 2002 arriverà ( ) – le mascelle sono ancora spalancate. Il disco è da un lato più uniforme rispetto al predecessore, dall’altro (a partire dal nome, chiaramente) più criptico, serrato, austero. Nessun brano si assesta sotto i sei minuti, nessun brano ha un titolo, nessun brano ha testo perché il cantato è interamente hopelandic. La prima traccia (successivamente identificata come Vaka) è anche il singolo di lancio, accompagnato da un indimenticabile videoclip diretto da Floria Sigismondi. Ed è subito uno straziante incanto. Non è sano, in realtà, stabilire delle apparenti barricate tra un movimento e un altro, considerare la quasi più low-iana #2 (Frysta) come un corpo distante dalla quasi classicamente minimalista #3 (Samskeyti). Nulla è slegato, nulla è a sé – e siamo comunque soli nella magia dell’ascolto.

La vagamente tambureggiante #4 (Njósnavélin) ripercorre un tracciato più nineties, pur senza esplodere nel finale, mentre in #5 (Álafoss) si fanno vivi echi indefinitamente pinkfloydiani, ancora più decisi nella magnifica #6 (E-Bow): forse la composizione più completa del lotto, quella in cui le diverse anime della band si compenetrano al meglio. Le dilatate #7 (Dauðalagið) e #8 (Popplagið) restituiscono la atmosfere del sopracitato “Ágætis Byrjun”, coi loro solenni crescendo addirittura ricordati con rabbia, nell’incandescente coda conclusiva dell’opera.

Accade tutto fra due parentesi. L’inizio e la fine di un LP. L’inizio e la fine di una giornata, di un’annata, di una vita. In una delle sue più indimenticabili poesie, Ivano Ferrari scriveva che “…nessuna cosa / avviene tra le braccia”. I Sigur Rós ne concepiscono l’antitesi. Completando, entro i trent’anni, una doppietta destinata al riconoscimento immediato. E conservando pressoché intatto, a venti primavere di distanza, il roseto dello stupore nelle terre della Speranza.

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